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19/04/2020 - 2a Domenica di Pasqua - Anno A

Aggiornamento: 20 apr 2020


At 2, 42-47; Sal 117/118; 1Pt 1, 3-9; Gv 20, 19-31

Cari amici ed amiche, in questa prova che si sta prolungando oltre l’inverosimile, l’atteggiamento che, mi auguro, molti di voi staranno sperimentando, sia la perseveranza. Essa è importante perché ci aiuta a viver l’attesa di vedere realizzata la nostra speranza. Molti di noi, però, sperano semplicemente di ritornare alla vita di prima, magari per godersela ancora di più, secondo la logica del carpe diem. È evidente che una simile mentalità riflette un’idea di vita chiaramente immanentista. Secondo questa mentalità, infatti, ogni cosa ha senso solo in questa vita. Da qui la corsa sfrenata a sfruttare ogni possibile occasione per trarne il maggior profitto personale possibile. Non sono pochi coloro che pur professandosi cristiani vivono chiaramente secondo questa logica di vita. Per costoro la speranza proveniente dalla fede – anche se non lo esplicitano chiaramente – è solo una sorta di pia illusione, che non trova alcun riscontro nella vita culturale e sociale. Essi sono tra quelli ai quali Gesù direbbe: “In verità vi dico: hanno già avuto la loro ricompensa”(Mt 6, 2).

Invece vorrei rivolgermi a quanti hanno il coraggio di guardare oltre questo tipo di ricompensa e fondano la loro speranza nella promessa della vita nuova in Cristo, sforzandosi di viverla già ora, nel proprio vissuto quotidiano. Pertanto mi sembrano quanto mai appropriate le parole di san Pietro, in questo brano della sua prima lettera: “Siate ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime” (1Pt 1, 6-9).

In che modo ciascuno di noi può radicarsi in questa speranza, così da darne ragione a quanti chiedono di giustificarla, secondo le parole di Pietro: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3, 15)? Nel tentativo di rispondere a questa domanda vorrei tracciare insieme a voi un percorso di speranza, attraverso alcuni brani evangelici che la Chiesa ci propone in questo periodo pasquale. Permettetemi perciò di partire da un brano che ritengo particolarmente significativo per questa circostanza. Mi riferisco al brano evangelico dei Discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-53), che solitamente leggiamo nella messa vespertina del giorno di Pasqua. Dopo di ché cercherò di riallacciarmi a quello di Giovanni, che la liturgia ci propone per quest’oggi (Gv 20, 19-31).

L’invito che vi faccio è quello di rileggere la scena descritta da Luca in sovrimpressione a quella nostra che si va delineando in questo periodo. È importante questa operazione, per cogliere le affinità e le differenze, e quindi la chiave interpretativa che può aiutarci a mettere a fuoco il senso che ciascuno di noi è chiamato a comprendere in questa circostanza. Per farlo seguiamo passo passo Gesù, sforzandoci non solo di capire le sue parole, ma anche di vedere il metodo pedagogico con cui lui si accosta alle persone, dischiudendo la loro intelligenza spirituale. Anche a noi, come a questi due discepoli, sarà certamente capitato in questi giorni di attraversare momenti di tristezza, di lamentarci, di criticare, denunciare, accusare qualcuno o qualcosa. Spesso non si tratta solo di denuncie vaghe, oppure contro ignoti, ma anche precise e pungenti. In ogni caso esse contribuiscono a crearci un animo inquieto, per il quale cerchiamo affannosamente qualche spiegazione. In questo stato non sono mancate le occasioni per lamentarci perfino con Dio, considerandolo all’origine di tanta sofferenza. Magari gli abbiamo chiesto spiegazione in merito, ma lui come al solito ci è apparso muto, assente o indifferente. E mentre anche questo atteggiamento di Dio diventava un ulteriore motivo dei nostri inasprimenti, egli, inaspettatamente e con la discrezione che lo contraddistingue, ha cominciato a riaffiorare in noi, con quella vocina sottile e delicata, appena appena percettibile, alla quale, però, non sempre abbiamo dato credito. Qua e là abbiamo ritenuto opportuno persino ignorarla. Poi invece questa vocina è cominciata a divenire più insistente e perfino ad interpellarci. Finché non abbiamo cominciato a considerarla un po’ più attentamente. Come notate la discrezione con cui Cristo, oggi, si avvicina a noi è esattamente la stessa con cui lui si è avvicinato allora ai discepoli di Emmaus. Solo che lui oggi lo fa nella forma dello Spirito. E anche a noi lui pone domande relative a questa situazione: Cos’è successo, da agitarvi tanto? Cosa vi inquieta? (cf. Lc 24, 17). Chi tra di noi, dinanzi a simili domande, non ho sbottato come uno dei due discepoli: “Tu solo sei così forestiero da non sapere quello che è accaduto?” (Lc 24, 18). E lui, con quella sua solita mitezza, con la quale cerca di stemperare la nostra irruenza ed esuberanza, ci pone un ulteriore domanda, quasi a passare per un ingenuo: “Che cosa?” (Lc 24, 19). È emblematica la risposta che i discepoli danno a Gesù: con essa fanno memoria di tutta la sua vicenda storica e soprattutto del modo con cui egli aveva riacceso in loro le speranze di libertà e di salvezza; ma poi la sua passione e morte aveva decretato il suo definitivo fallimento. Da qui le ragioni di tanta delusione e rabbia. Esattamente come accade a noi quando nutriamo forti attese verso qualcuno o qualcosa. Quanti di noi, in questo periodo, hanno visto andare in frantumi le speranze di un lavoro con cui garantirsi un futuro più sereno, e vedersi definitivamente cancellato in loro ogni desiderio? Con chi prendersela? Chi può ascoltare questo grido? Sono istanze queste che possono farci rasentare persino la disperazione? Ma ancora una volta, quando abbiamo la sensazione di sentirci con l’acqua alla gola, ecco che lui si accosta più vicino a noi, invitandoci alla mitezza, proprio come suggerisce il salmista: “Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore. Quando mi assalgono i malvagi, per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere. Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme, se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia” (Sal 27, 1-2). Malgrado tutto però ci accade di sperimentare esattamente il contrario. E anche noi come questi due discepoli continuiamo a piangerci addosso, tanto che le lacrime ci impediscono perfino di riconoscere i segni attraverso i quali Gesù si ripresenta a noi, nella nostra vita quotidiana. Finché anche noi non veniamo scossi, finalmente, da quel suo salutare monito: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti. Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24, 25-27).

Ecco allora i versetti decisivi del nostro brano. I due discepoli nello spiegare a Gesù le ragioni della loro tristezza fanno memoria della sua storia, ma senza comprenderne il senso. Questo loro modo di fare ci fa capire una cosa essenziale: non basta raccontare il vangelo senza lasciarsi coinvolgere dallo spirito che lo anima. Così come non basta praticare la fede senza lasciarsi rinnovare dalla sua verità. Basta guardarsi intorno per vedere come tanti di noi vivono la fede con la stessa tiepidezza di questi due discepoli. Questo episodio evangelico ci fa capire che non basta vivere gli eventi della vita, occorre imparare a spiegarne il senso. Perciò è importante imparare a dirsi e a dire ciò che accade dentro di noi e fuori di noi. Consapevoli che questa operazione non è mai facile, al contrario è estremamente impegnativa, ma costituisce l’operazione fondamentale per dischiudere il senso della nostra identità spirituale. Questo non è mai subito chiaro ed esplicito, perciò necessita della nostra attività spirituale, fatta di riflessione, meditazione, preghiera, contemplazione. Spiegare è l’attività che come dice il termine ci insegna a togliere, aprire, dischiudere le pieghe che tengono nascosto il senso della vita. Perciò spiegarsi è uscire dalle pieghe, ovvero dai dolori della vita quotidiana. Spiegare e spiegarsi sono le attività che ci insegnano a uscire fuori di noi, per imparare a vedere la nostra storia dall’alto, da Dio. Forse anche noi, come gli apostoli, ci lasciamo spesso prendere dal panico che ci ammutolisce e blocca all’interno dei nostri gusci esistenziali, nei quali ci rintaniamo per non affrontare le conseguenze che la fede comporta a livello sociale e i rischi culturali ai quali essa ci espone; paure dalle quali non riusciremmo ad uscire se Cristo non entrasse a porte chiuse dentro di noi (cf. Gv 20, 19.26).

Può capitare che nel tentativo di spiegare le ragioni della nostra fede, qualcuno si mostri scettico nei nostri confronti, come è capitato agli Apostoli, quando hanno cercato di comunicare a Tommaso la loro esperienza del Risorto. Ma Tommaso aveva un’esigenza ben più profonda. Non poteva limitarsi ad una spiegazione. Avvertiva la necessità di un incontro personale con Cristo. Ecco il punto cruciale per un’autentica esperienza di fede. Anche noi avvertiamo la necessità di passare da una fede fondata sul sentito dire, ad una fede fondata sull’esperienza personale di Cristo.

In cosa consiste questo passaggio? In realtà a questa domanda abbiamo già dato una risposta domenica scorsa, descrivendo l’entrata dei due discepoli nel sepolcro, con la quale essi non si limitarono a compiere solo un passaggio fisico, ma soprattutto spirituale. Entrando nel sepolcro essi per la prima volta decisero di partecipare della passione e morte di Gesù, e ciò significava rinnegare se stessi, la loro ragione, la loro intelligenza e fidarsi fino in fondo della Parola di Cristo. Questo morire a se stessi viene sperimentato per la prima volta anche da Tommaso nel brano evangelico di oggi. Si racconta infatti che egli non era con gli apostoli, quando Gesù apparve loro. E’ significativa questa sua assenza nel gruppo degli undici. Essa dice il rischio al quale ciascuno di noi si espone quando pensa di fare da solo nei momenti di solitudine, alla quale espone la prova. Se non vissuta bene la solitudine espone al rischio dello scetticismo, della sfiducia, del pessimismo, finendo così col perdere proprio la ragione per cui avevamo cominciato il nostro cammino di fede. Invece è importante, malgrado tutto, sentirci parte integrante del corpo della Chiesa, poiché è in essa che abbiamo la possibilità di sperimentare la presenza di Gesù in mezzo, come lascia intuire l’espressione: “Gesù, stette i mezzo a loro” (cf. Gv 20, 19.26). Lo scetticismo nel quale cade Tommaso può essere risolto solo facendo un’esperienza personale di Cristo, che l’evangelista Giovanni traduce col gesto della mano nella piaga del costato. Così anche Tommaso, proprio come avevano fatto Pietro e Giovanni, ha per la prima volta il coraggio di dare il suo assenso definitivo alla causa di Cristo, partecipando personalmente della sua sofferenza. Mettere la mano nella piaga non è perciò l’espressione di una fede empirica, come comunemente si crede, ma il gesto di una fede che s’incarna nella storia attraverso l’evento pasquale. Egli capisce che Cristo non ci salva con un’ideale di vita, ma facendosi uno con la nostra carne. Il corpo, la carne diventa così il luogo per eccellenza della nostra salvezza. La piaga nella quale egli introduce la mano gli fa capire che l’immagine di Gesù che aveva davanti a sé, non era frutto di un’allucinazione, o un fantasma (cf. Lc 24, 37) come qualcuno riteneva, ma il corpo concreto di Cristo (cf. Lc 24, 36). Nulla come la piaga poteva comprovare questa sua esperienza del Risorto. E’ lo stesso che accade anche a noi quando abbiamo il coraggio di vedere Gesù nelle pieghe e piaghe dei nostri dolori e di quelli che ci circondano. L’amore di cui Cristo ci rende partecipi non è un idillio ingenuo e adolescenziale, ma il risultato di un vissuto torchiato dal dolore. Tommaso capisce che la vita inaugurata da Cristo può essere raggiunta solo passando attraversando la piaga, ovvero attraverso la morte di se stessi. È quando sperimenta il nulla di sé, che Cristo gli si dischiude come il tutto. Da qui la straordinaria formula di fede che egli professa davanti a Gesù e ai discepoli: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20, 28), che potremmo benissimo tradurre con: Mio Dio e mio tutto.

Al pari di Tommaso anche noi siamo chiamati a condividere la passione di Cristo. Non importa se avvertiamo segni di riluttanza. Ciò che conta è quella fiducia estrema in Dio che ci fa dire a noi stessi: questa prova è per me, per radicare la speranza nella vita nuova in Cristo.

Luigi Razzano

 
 
 

1 commento


riemmacarolina
19 apr 2020

Buonasera don Luigi ho ascoltato attentamente le sue parole e mi ci ritrovo pienamente. Mi sento come i discepoli di Emmaus e quando lei parla della prova mi sono ritrovata per ciò che sto vivendo. Grazie per avermi inserito in questo gruppo ,mi ha fatto piacere. Un forte abbraccio Carolina

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