18 Agosto 2024 - Anno B - XX Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 17 ago 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Pr 9, 1-6; Sal 33; Ef 5, 15-20; Gv 6, 51-58
La salvezza attraverso la carne

Il capitolo sesto del vangelo di Giovanni si rivela di estrema importanza per la fede in Cristo. La prolungata insistenza sulla formula: io sono il pane di vita, disceso dal cielo, diventa lo zoccolo duro per chiunque voglia accostarsi ad essa. Il suo discorso sul pane di vita diventa comprensibile, come sembra suggerire il libro dei Proverbi, solo in una prospettiva sapienziale. Proviamo dunque a lasciarci illuminare da questa visione che impregna queste pagine giovannee, e lo facciamo partendo dalla difficoltà riscontrata dai Giudei.
“Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (Gv 6, 52). Per noi che viviamo una fede inserita all’interno di una tradizione culturale queste affermazioni di Gesù ci appaiono fin troppo scontate, tanto che la difficoltà dei Giudei può addirittura sorprenderci, ma proviamo per un attimo a lasciar realmente sollecitare le nostra intelligenza da queste parole e a cogliere la reale condizione che Gesù pone per avere la vita eterna. In un attimo queste parole ci appaiono effettivamente una pretesa inaudita. La vita eterna non è forse una prerogativa solo di Dio? La difficoltà dei Giudei è essenzialmente legata all’umanità di Gesù. Come può Gesù da uomo arrogarsi un simile potere? Ma ciò che più sorprende è che Gesù considera proprio la sua umanità la condizione per la partecipazione alla vita eterna. In altri termini l’umanità di Gesù è una presupposto imprescindibile, senza il quale nessuna comunione di vita con Dio è possibile. È il luogo della sua rivelazione. Nessuna salvezza è possibile senza passare attraverso l’umanizzazione di Gesù. Solo chi entra in comunione con la sua umanità, può partecipare della divinità del Padre ed acquisire la sua vita. Come il Verbo facendo propria l’umanità dell’uomo gli ha trasmesso la vita divina, così il discepolo facendo sua la propria umanità, ovvero accogliendola e vivendola come l’accolta e vissuta Gesù, viene reso partecipe della divinità. Senza questa operazione nessuna divinizzazione è possibile. È nella sua carne che l’uomo incontra e partecipa della vita di Dio.
Come se tutto ciò non bastasse è che per entrare in questa comunione di vita Giovanni fa uso di una terminologia come: mangiare, masticare, bere, che ad un ascolto superficiale può dare adito ad un’interpretazione realistica e perciò ripugnante, alla stregua di alcune religioni cannibalistiche. Come va inteso questo linguaggio? In realtà si tratta di un linguaggio simbolico, comprensibile solo alla luce della tradizione biblica, secondo la quale il profeta Ezechiele mangia il rotolo della Parola (Ez 3,3), oppure la Sapienza che invita a mangiare al suo banchetto (Pr 9,5s; Sir 24,18-33; Is 55,1ss). Il realismo diventa comprensibile in una prospettiva eucaristica, dove realmente il corpo e il sangue vengono assimilati attraverso le specie del pane e del vino. Mangiare la carne e bere il sangue significa assimilare la passione di Cristo, recepire, capire, acquisire la logica della vita evangelica di Gesù. Si tratta di fare propria la sua logica del dono.
Il pane infatti richiama la Parola di Dio, il sangue il suo amore. Entrambi sono principio di vita. In quanto Parola diventata carne d’amore Gesù è il vero pane di vita. Gesù realmente dando il suo corpo e versando il suo sangue sulla croce, donando cioè la sua umanità, apre all’uomo la possibilità di ricevere in dono la vita di Dio. Tale vita non è qualcos’altro da quella dell’uomo, ma è la vita stessa dell’uomo vissuta come dono, come pienezza. Pertanto la modalità con cui Gesù vive la sua umanità apre all’uomo la via verso la sua umanità divinizzata. È in questo senso che l’umanità di Gesù è l’unica che realmente umanizza l’uomo. Non c’è altra via per essere uomo. Così mentre la logica umana sostiene che per essere pienamente se stessi occorre possedersi, Gesù sostiene che occorre donarsi. L’umanità vissuta come dono è l’umanità vissuta in pienezza. È qui la redenzione e l’eternità. In Cristo noi diveniamo come lui: figli. Mangiando di lui diveniamo lui, acquistiamo cioè la sua stessa eredità divina. Solo vivendo come lui, l’uomo impregna la sua vita della vita divina e viene così divinizzato. Ed è proprio questa operazione libera, gratuita e concreta a garantire al discepolo la trasfigurazione e la partecipazione alla vita di Dio.
Il pane che Gesù dona, non è come la manna che Dio attraverso Mosè offre al popolo nel deserto. Questa è sì un segno prodigioso, ma solo un modo per nutrire il corpo. Mosè e Gesù compiono entrambi un gesto di origine divina: l’uno la manna, l’altro la moltiplicazione dei pani. Ma i gesti che essi compiono sono dei segni e servono solo a far capire al popolo l’azione provvida del Padre. L’attenzione non deve cadere sul segno, ma su Dio che provvede per il suo popolo. I Giudei pur mangiando la manna non credettero alla promessa di Dio, perciò morirono. Allo stesso modo i cristiani rischiano mangiando l’eucaristia.
Ma c’è un di più: rispetto a Mosè, Gesù non compie solo un segno per indurre alla fede in Dio, ma il suo segno è in vista della fede in se stesso. Egli propone se stesso come pane del cielo, ovvero come Parola di Dio che dà vita. È questo di più che rimane incomprensibile non solo ai Giudei, ma a tutti coloro che non accolgono l’umanità di Gesù. Gesù non propone come Mosè la fede in Dio, ma se stesso come oggetto di fede, per giungere al Padre. Egli non è appena appena un uomo di Dio come Mosè, ma il luogo della rivelazione stessa di Dio. E la sua umanità è questo luogo in cui la stessa vita di Dio si rende partecipabile. È qui lo scandalo inaccettabile alla mentalità giudaica. Per loro l’umanità è troppo limitata e limitante per consentire una simile partecipazione. Nella loro prospettiva l’umanità viene considerata solo come luogo di peccato: ecco il limite invalicabile alla loro mentalità. Per Gesù invece l’umanità non è solo luogo di peccato, ma soprattutto condizione del dono di sé. È in questo senso che la sua umanità diventa luogo di salvezza. Pertanto chi in Cristo vive la propria umanità in questa prospettiva del dono partecipa della salvezza stessa di Dio.
La vita eterna non è la perennità, la continuità all’infinito della vita biologica. In tal caso dovremmo parlare di immortalità. Essa invece è la partecipazione alla vita divina di Dio e questa passa necessariamente attraverso la pasqua, ovvero la passione morte. Solo chi muore e muore come Gesù risorge. In altre parole solo chi muore donando la vita ha modo di ricevere in dono la vita divina. E la risurrezione non va intesa come riappropriazione della vita biologica, ma come acquisizione della vita nuova di Dio.




Commenti