17 Agosto 2025 - Anno C - XX Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 16 ago
- Tempo di lettura: 6 min
Ger 38,4-6.8-10; Sal 39/40; Eb 12,1-4; Lc 12,49-57
L’ansia evangelica di Gesù

“Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione” (Lc 12, 49-51).
Parole dure se non addirittura sconcertanti queste pronunciate da Gesù. Esse sconvolgono l’opinione di chi è abituato ad immaginarlo “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) o “operatore di pace” (Mt 5,9), come effettivamente emerge da altri contesti evangelici. Eppure si tratta di parole dello stesso Gesù, che lasciano intendere una straordinaria ansia evangelica, e che non è facile capire se non alla luce dalla passione d’amore che egli nutre per Dio e per il suo Regno, per i quali prova un fervore così veemente e impetuoso che non accenna a placarsi finché non li vede pienamente realizzati tra gli uomini e nel mondo. Sono perciò parole determinanti che segnano una svolta nella coscienza profetica di Gesù e in quella dei suoi interlocutori. Mai come in questa circostanza si comprendono le condizioni che Gesù chiede a chiunque decide di mettersi alla sua sequela: “se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso e mi segua” (Mt 16,24). Non è possibile dunque rimanere indifferenti. Esse interpellano profondamente la coscienza umana; dinanzi alle quali occorre decidersi: tra la logica evangelica e la logica del mondo, consapevoli che: “Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde” (Mt 12,30).
Ma cosa induce Gesù ad essere così radicale nei confronti dei suoi interlocutori e così provocante per noi, oggi, che ci chiediamo: se e in che termini sia possibile essere così totalizzanti, specie in un contesto sociale caratterizzato da un lassismo morale, da una cultura relativista e liquida e soprattutto da una fragilità – o forse sarebbe meglio dire, da una mollezza – psicologica come la nostra? Non è facile rispondere a questa domanda, se non alla luce di alcuni episodi biblici, come quello del “roveto ardente” (cf. Es 3,1-6), che ci dà un’idea della profonda passione che Mosè nutriva per Dio. La fiamma del suo amore per Dio era così incandescente da rimanere costantemente accesa nel suo cuore, senza mai consumarsi. E tale rimase per tutta la vita, anche dinanzi alle numerose prove e controversie che dovette affrontare; o dell’amore viscerale che l’amante prova per la sua amata nel Cantico dei Cantici, quando giunge a dire: “forte come la morte è l’amore” (Cc 8,6), a testimonianza della potenza e dell’intensità della passione amorevole, da paragonarla alla forza ineluttabile della morte; o ancora la profezia del vecchio Simeone, che pronuncia su Gesù, ancora bambino, le seguenti parole: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2, 34-35); o ancora le considerazioni che l’autore della lettera degli Ebrei fa a proposito della parola di Dio: “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, fino a discernere i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4, 12-13). Per Paolo, infine ma non ultimo, Gesù costituisce una “pietra d’inciampo” (Rm 9,32), contro la quale si scontra la mentalità del mondo: chiunque urterà contro di essa rimarrà scandalizzato, diversamente chi crederà in lui non sarà deluso (cf. Rm 9,33).
Per avere un’idea di questa radicalità tipicamente gesuana, occorre entrare nel suo modo di pensare e sposare, come lui, il suo ideale evangelico, per il quale egli nutre una passione così struggente da bruciargli dentro senza consumarsi, esattamente come il “roveto ardente” di Mosè. Egli concepisce la missione del Regno di Dio pari a quella di un “battesimo” (Lc 12,50), destinato a rinnovare il mondo dall’interno. Si tratta di un profondo processo di trasfigurazione, da estendere a tutti gli ambiti della vita umana. L’ansia che egli nutre per questa missione salvifica è tale da procurargli una profonda angoscia, che perdura in lui “finché tutto sia compiuto” (Lc 12,50). Nel corso del suo svolgimento egli non ammette compromessi da parte di coloro che hanno deciso di condividere con lui la sua missione, neppure nei confronti dei loro familiari: “D’ora in poi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due, e due contro tre, si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12,52-53). Una radicalità questa manifestata da Gesù che ci interpella senza mezzi termini. È possibile giungere ad essere così esigenti? Può Cristo chiedere di metterci contro un familiare per amore suo e della sua causa evangelica? Quale madre sarebbe disposta a scegliere tra Gesù e il proprio figlio? Questa sua esigenza non rasenta per caso il fanatismo religioso? Sono domande che fanno tremare i polsi, perfino quelli dei cristiani più convinti. Eppure le testimonianze di sequela che si sono susseguite nel corso della storia cristiana ci dicono che non sono mancati casi di scelte così estreme: basti pensare a san Francesco che dinanzi ad una simile alternativa decise di scegliere il Padre celeste, al posto di quello terreno, senza tuttavia scadere nel fanatismo. Personalmente ritengo che non è possibile comprendere questo tipo di esigenza se non all’interno di una relazione intima e profonda con Cristo. Vale perciò per essa quello che Gesù dice per il celibato: “Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19,11).
Scegliere Cristo comporta esporsi alla sua stessa sorte: “Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi: se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,20). La sorte del discepolo è quella del testimone autentico che paga le conseguenze per la sua franchezza evangelica, come il profeta Geremia, che accetta senza esitazione le disposizioni del re Sedecia, al quale aveva osato contrastare la decisione di confidare solo nella forza del suo esercito per sconfiggere gli avversari (cf. Ger 38,4-6.8-10); oppure come il Battista che non ritira la denuncia morale fatta al re Erode (cf. Mc 6,17-28) neppure dinanzi alla condanna della sua decapitazione – preferendola al compromesso – pur di rimanere fedele alla sua missione profetica.
Decidersi per Cristo significa allora avere il coraggio di sottoporsi alla prova estrema della lacerazione interiore, quella cioè che scaturisce dalla scelta tra la logica del mondo e quella evangelica di Cristo, tra l’affetto umano verso i familiari e l’amore divino per Cristo. Una lacerazione che Gesù esprime attraverso alcune immagini simboliche, apparentemente contrastanti, ma estremamente significative, come quella del “fuoco”, del “battesimo”, della “pace” e della “divisione”. Il “fuoco” incenerisce eppure la sua distruzione è anche motivo di vita nuova. Allo stesso modo anche il “battesimo”: le sue acque possono essere indice di morte, ma al tempo stesso origine di vita nuova in Cristo. Di pari anche la “pace” del mondo: esteriormente può essere segno di una serena convivenza, ma rivelarsi solo il risultato di un astuto compromesso; infine la “divisione”, quella di cui parla Cristo apparentemente può essere indice di una contraddizione interna, in realtà è nient’altro che il segno di una radicale presa di posizione nei confronti della mentalità del mondo.
Seguire Cristo significa allora provare la stessa ansia evangelica che egli nutriva per la salvezza del mondo. L’adesione a questa sua logica d’amore richiede una radicalità che non ammette indugi e compromessi, né col mondo né con le relazioni umane. Non si può aderire alla vita evangelica e poi vivere secondo il mondo o predicare l’amore di Cristo e poi lasciarsi imbrigliare dagli affetti umani. Seguire Cristo significa perpetuare la sua opera nel mondo, ovvero continuare il processo di trasfigurazione, inaugurato col suo battesimo e ciò richiede di morire a se stessi, esattamente come ha fatto lui che: “di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore” (Eb 12,2). Si tratta allora di “guardare attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, affinché non ci stanchiamo perdendoci d’animo” (Eb 12,3). Occorre perciò “tenere fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2).
Saremo capaci di nutrire una simile passione evangelica, tale da dare una svolta ecclesiale all’attuale torpore spirituale? Il futuro dipende dalla scelta che sapremo fare nell’oggi della nostra fede. Chi crederà vedrà!




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