17/05/2020 - 6a Domenica di Pasqua - Anno A
- don luigi
- 17 mag 2020
- Tempo di lettura: 7 min
At 8, 5-8.14-17; Sal 65; 1 Pt 3, 15-18; Gv 14, 15-21
La promessa del Paraclito
La Chiesa ci prepara alla grande festa della Pentecoste con brani biblici sullo Spirito Santo. Il libro che più di ogni altro ne mostra la presenza operante è quello degli Atti degli Apostoli, che secondo qualche studioso potrebbe essere benissimo definito: Atti dello Spirito Santo, tanto evidente è la grazia che ispira, suscita, accompagna ed orienta l’azione della Chiesa nei suoi primi passi missionari. La liturgia, in questo tempo pasquale, ce ne sta proponendo una lettura continuativa, come a voler formare in noi quella sensibilità che ci consente di registrare la sua presenza anche nelle più piccole manifestazioni della vita quotidiana. A questo proposito anche io vi invito a riprenderlo tra le mani, per rileggerlo e meditarlo con calma. Esso potrebbe diventare un sussidio per imparare a pregare con lo Spirito nella Chiesa, ma anche per imparare a rileggere la nostra vita nella luce del piano salvifico di Dio. Tale lettura, sono sicuro, vi abituerà a quella familiarità con lo Spirito, tanto necessaria, oggi, non solo per progredire nella vita spirituale personale, ma soprattutto per acquisire quella visione ecclesiale della vita, con la quale contrastare la cultura individualista, così diffusa nella nostra società e perfino tra noi cristiani.
Come primo approccio alla conoscenza dello Spirito sarebbe interessante individuare nella Bibbia tutti quei brani dove in modo esplicito o implicito, si fa riferimento a Lui, ma bisogna riconoscere che è un’impresa ardua. Volendo potremmo limitarci solo al Nuovo Testamento, o a quei racconti delle apparizioni (cf. Gv 20, 22-23; Lc 24, 49; Mt 28, 19s; Mc 16, 15ss). Nello specifico noi restringeremo ancora ulteriormente il campo d’indagine, soffermandoci sul Discorso di Addio (Gv 13, 31-17, 26), dove Gesù, poco prima di morire, promette ai discepoli, a mo’ di testamento, lo Spirito Santo, come a lasciare loro il dono più prezioso della sua eredità. Si tratta di un Discorso al quale abbiamo cominciato a far riferimento già domenica scorsa, durante il quale Gesù parla a più riprese dello Spirito (cf. 14, 16-17.26; 15, 26; 16, 7-15), e ogni volta ne sviscera e amplifica il significato, con un movimento circolare simile a quello della sinfonia, dove un tema viene accennato, ripreso, sviluppato e ampliato. Nel commento che vi propongo cercherò di tener presente anche di quei riferimenti non compresi nel brano liturgico di oggi, naturalmente senza la pretesa di essere esaustivo.
Un brano biblico che potrebbe aiutarci ad assumere l’esatto atteggiamento nei confronti dello Spirito è quello di Es 3, 1-6, dove Dio intima a Mosè di togliersi i sandali dai piedi, perché la terra sulla quale si ritrova è sacra; come a voler dire che chiunque si introduce nella vita spirituale, è opportuno che lo faccia in punta di piedi, delicatamente. Un atteggiamento questo che contrasta fortemente con quello nostro, col quale siamo soliti accostarci anche alle realtà più sacre, come elefanti in una cristalliera, con la pretesa di ottenere, possedere e capire tutto e subito. Lo Spirito invece è e rimane qualcosa di misterioso, sottile, appena percettibile, leggero, mobile, terso, puro, esattamente come viene descritta la Sapienza che da Lui promana (cf. Sap 7, 22-30). Per questa ragione Egli sfugge a tutti coloro che hanno la pretesa di ingabbiarlo nelle reti della propria razionalità. L’atteggiamento più idoneo è perciò quello della docilità, convinti che lo Spirito si dischiude solo all’intelligenza di chi si lascia illuminare dalla sua grazia. È racchiuso tutto qui il segreto della prima beatitudine che Gesù raccomanda in modo speciale ai suoi discepoli: “Beati i poveri in spirito” (Mt 5, 5). Uno spirito umano arrogante e presuntuoso ha ancora molto da sgrossare prima di giungere alla delicata raffinatezza della vita nello Spirito.
Nel Discorso di addio Gesù lo definisce “Paraclito”, che etimologicamente significa: chiamato presso, invocato, da cui l’equivalente latino ad-vocatus, cioè “Avvocato”. Egli infatti è invocato in tutte le circostanze in cui viene esigito il suo intervento, come quando i discepoli sono chiamati a rendere testimonianza della fede in Gesù in caso di persecuzioni: “Non preoccupatevi di quello che dovrete dire, perché in quel momento non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo” (Mc 13, 11); oppure quando viene invocato per discernere il sostituto di Giuda (cf At 1, 15-26), o ancora quando gli Apostoli: “pregarono per i [Samaritani] perché ricevessero lo Spirito Santo” (At 8, 15.17), o ancora quando suggerisce a Filippo di aprire la propria azione missionaria agli Etiopi (cf. At 9, 29), o in occasione dei primi battesimi ai pagani, come attesta il Discorso di Pietro nella casa di Cornelio (cf. At 10, 44ss), che ne evidenzia per altro anche la gratuita e libera circolarità.
Il suo intervento genera consolazione, da qui l’altro termine “Consolatore”, con cui viene tradotto nel Discorso che stiamo commentando (cf. Bibbia di Gerusalemme). La sua principale funzione è dunque quella di ‘consolare’ i discepoli durante la missione che essi sono chiamati a svolgere nel mondo, esattamente come ha fatto Gesù con loro, quando era ancora in vita. Non a caso Gesù lo definisce “altro” Paraclito, per distinguerlo da lui stesso (Gv 14, 16). Per questa ragione lo Spirito prima ancora di essere compreso come energia che infonde forza (cf. At 1, 8), coraggio e convinzione alla fede e alla predicazione dei discepoli, va inteso come dono della presenza viva ed operante di Cristo in mezzo a loro. Lo Spirito è Cristo stesso nella forma nuova della vita gloriosa. La consolazione scaturisce dalla certezza che Gesù, sia pure in una forma nuova, è sempre con loro: “Io pregherò il Padre ed egli vi manderà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre” (Gv 14, 16), la stessa promessa che ripeterà all’indomani della sua Risurrezione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
Lo Spirito viene definito anche “Spirito di verità” (Gv 14, 17), perché permette di indagare le profondità del mistero di Dio. Egli avrà perciò il compito di guidare i discepoli alla comprensione della “verità tutta intera” (Gv 16, 13), ovvero alla conoscenza relazionale intima e particolare che sussiste tra Gesù e il Padre. Per Gesù la verità non è una nozione filosofica, ma la vita stessa di Dio, quella cioè che lui intesse col Padre, nello Spirito Santo. Essa è la vita trinitaria. Di questa vita noi veniamo resi partecipi per mezzo dello Spirito che illuminando la nostra intelligenza ci permette di cogliere il significato di questa verità. La pienezza di questa intelligenza spirituale, ovvero la comprensione della verità della vita trinitaria avviene solo nella misura in cui si è Chiesa, cioè solo vivendo quella relazione interpersonale generata dall’amore reciproco del comandamento nuovo di Gesù. L’insegnamento che Lo spirito dovrà svolgere presso i discepoli pertanto non è altro rispetto a quello di Gesù. Egli non aggiungerà o toglierà nulla rispetto a quello che Gesù ha già rivelato col suo insegnamento: “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (G 14, 26; 16, 13-15; 8-11). Nessuno conosce i pensieri di Dio come lo Spirito, e in virtù del dono della sua intelligenza anche noi possiamo conoscere l’imperscrutabile sua volontà, la profondità della sua sapienza, così da giungere non solo a testimoniarlo (cf. Gv 15, 26-27), ma perfino come dice Pietro nella sua prima lettera a “dare ragione della fede che è in noi” (1Pt 3, 15). “Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi” (Gv 14, 17). Grazie alla sua presenza in noi abbiamo la possibilità di entrare in relazione con Dio, creando con lui un rapporto di comunione profonda, come quella filiale di Gesù con il Padre. E’ Lui che fa capire l’identità divina di Gesù; è Lui, inoltre, che fa comprendere la paternità di Dio; è Lui che fa essere nel Padre, fino ad entrare in comunione con lui per mezzo del Figlio: “Voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (Gv 14, 20). Lo Spirito introduce nella stessa dinamica d’amore che Gesù intesse col Padre: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò” (Gv 14, 21); “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). Egli è l’humus divino che ci fa simili a Dio. Per questa ragione Egli non può essere donato se non a coloro che entrano nella dinamica relazionale con Gesù e quindi vivono con lui un rapporto di fede: “Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi” (Gv 14, 17). Fuori di questo rapporto non è possibile riceverlo, neppure capire la sua essenza e la sua presenza: “Il mondo non può riceverlo, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14, 17).
Segno evidente di questa rinnovata presenza di Gesù tra i suoi è dunque l’amore e più specificamente quello che lui definisce il comandamento nuovo: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15, 12). Qui è tutto il senso del discepolato di Gesù. I suoi discepoli non hanno altro compito che farsi promotori del suo amore tra gli uomini nel mondo. L’amore è la prova della presenza dello Spirito presso i suoi: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (Gv 14, 21). L’amore è l’unica opera che rende gloria del Padre: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.” (cf. Gv 15, 8-10). Ma la promessa che più di tutte fonda la nostra consolazione è: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11).




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