16/08/2020 - 20a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A
- don luigi
- 16 ago 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Is 56, 1.6-7; Sal 66; ; Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28
L’universalità della salvezza
Oltre a quella di Elia e Pietro la liturgia della Parola ci propone, quest’oggi, un’altra esperienza di fede, che considerando il contesto in cui avviene e la persona che la compie, si rivela di estrema attualità. Se l’esperienza di fede del profeta Elia ci ha insegnato ad essere costantemente aperti alla novità del linguaggio comunicativo di Dio e quella di Pietro a coglierne l’essenza nella totale fiducia a Cristo, quella della donna cananea ci insegna a sviluppare l’atteggiamento dell’insistenza, che considerando la volubilità e la fragilità della nostra struttura religiosa, occorre prendere in seria considerazione.
Per cogliere il senso di questo aspetto è importante collocare l’episodio evangelico nel contesto della problematica religiosa entro cui avviene. La questione morale relativa al puro e all’impuro, sviluppatesi a seguito della trasgressione delle norme del lavaggio delle stoviglie (cf Mt 15, 1ss) e del cibo (cf. Mt 15, 10ss), da parte dei suoi discepoli, pone Gesù in evidente contrasto con le autorità religiose, più preoccupate di osservare pedissequamente le tradizioni culturali che non di piegare il proprio cuore alla volontà di Dio, considerato da Gesù la forma più autentica del culto divino. Esausto della forte resistenza esercitata nei suoi confronti, Gesù si sente costretto a lasciare Genesaret (cf. Mt 14, 34), per dirigersi a nord, verso un territorio pagano e precisamente nella zona di Tiro e Sidone. Qui, in un contesto religioso cananeo, una donna, mossa dall’esigenza della figlia, alla notizia della sua presenza, si orienta come disperata verso di lui, gridando: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio” (Mt 15, 24). All’atteggiamento supplichevole della donna corrisponde quello di Gesù che con un fare decisamente insolito e apparentemente incomprensibile, non si degna neppure di ascoltarla (cf. 22-23). L’atteggiamento di Gesù sorprende non poco la donna, e sconcerta i discepoli che lo invitano con discrezione a ravvedersi: “Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando” (23). Ma Gesù non si lascia intenerire neppure dalla loro mediazione, al contrario assume perfino toni duri e apparentemente discriminanti: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele” (24). Malgrado la rigida posizione di Gesù la donna rimane ferma nella sua richiesta di aiuto: “Signore aiutami” (25). E come se questa ulteriore insistenza non bastasse, si sente addirittura apostrofata come cane da Gesù: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini” (26).
Forse non esiste disprezzo peggiore che sentirsi additati come “cani”, in momenti, come quello descritto, in cui ci si apre ad una totale fiducia verso l’altro. L’evangelista Matteo non esita ad evidenziare questa discriminante, a testimonianza di una visione culturale fortemente radicata nella mentalità ebraica. Apostrofare come “cane” una persona significava qualificarla come traditore, infedele e oppositore non solo alla Legge mosaica, ma persino al messaggio evangelico. In realtà questa nomea ha radici profonde e lontane e risale ai tempi in cui il regno d’Isreale fu diviso in due: in regno del nord che aveva per capitale Samaria e quello del sud che aveva per capitale Gerusalemme. Mentre quest’ultimo era rimasto fedele al culto Jahvista, quello del nord, di cui faceva parte la donna, si era dato al politeismo. Da qui l’accusa di infedeltà per gli abitanti di Tiro e Sidone, che allontanandosi dall’originaria radice religiosa, si erano lasciati influenzare dal culto cananeo. Questa componente culturale condizionava non poco il modo di intendere l’esercizio del culto Jahvista, come attesta anche il colloquio tra Gesù e la Samaritana (cf. Gv 4, 1-54), e ci dà l’idea del contesto culturale in cui Gesù svolge la sua predicazione, sforzandosi di rinnovarlo dal di dentro, con un annuncio tutto incentrato sul Regno di Dio. In questa prospettiva l’apertura mentale manifestata dalla donna Cananea assume un valore ancora più emblematico, se si tengono conto di questi pregiudizi culturali.
Normalmente quando simili sforzi di apertura, vengono disprezzati, specie per chi, da neofita, si impegna in modo onesto a introdursi all’interno di un percorso religioso, creano sconcerto, se non addirittura veri e propri blocchi spirituali. A maggior ragione siamo invitati a cogliere il motivo che induce Gesù ad assumere questo atteggiamento nei confronti della donna cananea. Anche se tutti gli elementi lo lasciano intendere, quello di Gesù non è un gesto discriminante, espressione di una visione culturale fortemente offensiva verso chi nutre visioni religiose diverse, ma la presa d’atto di un momento decisivo della manifestazione del piano salvifico di Dio. Egli si fa interprete autorevole di una visione culturale che con la sua opera comincia ad essere trasfigurata. Per questa ragione egli avverte la necessità di inserirsi profondamente all’interno di una relazione personale che vede la donna, da una parte chiaramente influenzata da questa mentalità, dall’altra presenta delle condizioni genuine per un’autentica esperienza di fede. È mosso da questa coscienza che egli spinge al limite massimo la relazione, fino a farne emergere la radice religiosa più pura e primigenia. Ricondotta all’origine questa donna riscopre il principio della propria fede, smarrito a causa di una tradizione culturale troppo discriminante, rivelando un’intelligenza spirituale davvero sorprendente, della quale lo stesso Gesù prova stima e ammirazione: “Donna, davvero grande è la tua fede” (Mt 15, 28). Dinanzi alle condizioni poste da Gesù circa i tempi e le modalità rivelative del piano salvifico di Dio: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”, lei osa perfino sovvertire e forzare le disposizioni divine: “E’ vero, Signore, - disse la donna – eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (27). Con questa osservazione la donna è come se avesse ribadito: se nel piano sapienziale di Dio la salvezza è rivolta primariamente agli ebrei, ciò non esclude la possibilità che anche altri popoli possano attingere a questo disegno divino, per esaudire il desiderio di redenzione. La salvezza è un dono straordinario ed universale che non può essere relegato ai soli confini religiosi di un popolo. Questa singolare ed eccezionale interpretazione del piano salvifico di Dio, offre a Gesù l’occasione per constatare una sorprendente apertura alla sua missione salvifica, che non può essere assolutamente taciuta. La donna si rivela essere un segno straordinario di universalità della salvezza, proveniente paradossalmente da quei popoli ritenuti tradizionalmente lontani e pagani.
L’episodio della donna ci dà modo di far luce su alcuni fattori culturali che spesso danno origine a vere e proprie contraddizioni religiose e spirituali anche in noi cristiani. Di essi non sempre abbiamo la piena coscienza, perché agiscono in modo tacito dentro di noi, creando circostanze spiacevoli anche a livello ecclesiale. Gesù ha faticato non poco a stanarli, specie nei confronti dei maestri della Legge, per i quali le tradizioni culturali spesso prendevano il sopravvento su quelle cultuali. Tali condizionamenti provengono dalle nostre radici formative e intellettuali e non di rado ci inducono a visioni religiose inclusiviste e esclusiviste tali da generare finanche conflitti di civiltà. Essi sono spesso così radicati dentro di noi da limitare e perfino ostacolare l’azione dello Spirito. Dinanzi a queste spiacevoli conseguenze occorre prendere atto della necessità di una vera è propria conversione mentale al piano sapienziale di Dio, senza la quale la Parola di Cristo rischia di essere travisata e svuotata della sua potenza trasfigurativa e redentiva. Di questa conversione mentale sembra dare prova la donna cananea, offrendoci così l’occasione per riflettere su quelle condizioni culturali che impediscono alla nostra fede di attuarsi e svilupparsi pienamente. Ciascuno di noi si porta dentro questi limiti culturali, anche se non sempre ne conoscono le forme manifestative. Chiediamo perciò la sapienza dello Spirito per imparare a dar loro un volto e un nome, così da ridurre al minimo i loro condizionamenti e soprattutto per imparare, come la donna, a perseverare nella fede, specie quando Dio ci appare sordo e silenzioso.




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