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14 Settembre 2025 - Anno C - Esaltazione della Croce


Nm 21,4-9; Sal 77; Fil 2,5-11; Gv 3,13-17



La logica paradossale della salvezza

 



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“In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,13-15).

La coincidenza dell’Esaltazione della Croce con la 24a Domenica del TO, non ci impedisce di continuare a sviluppare il nostro discorso sulla fede, anzi ci consente perfino di giungere alle sue radici e manifestarne la logica salvifica che la caratterizza. Si tratta, come più volte stiamo ribadendo, di una logica paradossale, che fatica ad essere assimilata, perché contrasta fortemente con la mentalità culturale umana, tesa per lo più all’autoglorificazione personale. Per questo ritengo significativo che la Chiesa dedichi una festa liturgica alla “Croce”, come a voler evidenziare, o addirittura “esaltare”, il significato che la fede cristiana ha saputo cogliervi a seguito dell’Evento Pasquale (Passione, Morte e Risurrezione di Cristo), attraverso la riflessione teologica. Ne è scaturita una sapienza ampia e profonda, che apparentemente ha dell’assurdo, ma che si rivela di estrema importanza per l’esistenza di ogni persona umana, popolo, epoca e cultura. Da qui le domande che seguono: cos’ha di così rilevante questo simbolo da giungere perfino ad esaltarlo? Da dove scaturisce il significato che la fede cristiana gli attribuisce? Perché tale senso è così importante e fondamentale per la Chiesa?

La sola riflessione però, per quanto profonda, non basta, occorre indagare anche la sua incidenza nella vita personale, ecclesiale e sociale dei cristiani. Perciò: che rapporto hanno attualmente i cristiani con la croce? Quale ricaduta ha nel loro vissuto quotidiano? Quanti sono coloro che realmente riescono a integrarla nella loro vita e mentalità culturale e si nutrono abitualmente della sua sapienza? Quanti sono coloro che riescono a interpretare e vivere alla sua luce le sofferenze personali e sociali?

E tuttavia la rilevanza di una simile riflessione diventa tanto più significativa e incisiva, quanto più diventa possibile interpretare alla sua luce anche l’attuale realtà sociale e culturale. Perciò: come viene recepita dalla cultura e dalla società attuale la sapienza della croce? Quali reazioni, scontri o resistenze genera a livello personale e collettivo? Come interpretare l’attuale indifferenza culturale nei suoi confronti e, in generale, nei confronti della fede cristiana, in questo momento di cambiamenti epocali?

Naturalmente rispondere a questa serie di domande risulta pressoché impossibile in questa sede, ciò tuttavia non ci impedisce di tenerle come sfondo per la nostra riflessione. La loro funzione, ribadisco ancora una volta, è quella di aiutare ciascuno che intende cimentarsi con questa sapienza, a trovare il modo di come tradurla nel vissuto quotidiano.

In realtà già domenica scorsa mettevamo in evidenza la difficoltà a indagare il mistero profondo della volontà di Dio[1]; oggi, questa difficoltà emerge ancora più chiaramente dinanzi all’apparente irragionevolezza della logica salvifica della croce.

Il brano evangelico di Giovanni fa perciò a caso nostro, poiché ci fa capire che la difficoltà ad assimilare questa logica divina non dipende solo dalla testardaggine o dalla tontaggine della nostra mente, o ancora dalla mancata istruzione biblica, quanto da un’alterata interpretazione teologica, fortemente condizionata dalle ingerenze sociali e politiche; dai pregiudizi culturali e dalle paure e dalle resistenze personali, come mette in evidenza Giovanni nel descriverci la figura di Nicodemo. Chi meglio di lui – “maestro in Israele” (cf. Gv 3,10), come lo definisce Gesù – avrebbe dovuto disporre dell’atteggiamento spirituale fondamentale per capire il suo insegnamento evangelico, eppure manifesta delle chiare lacune intellettive e cognitive. Si capisce allora l’opportunità di tratteggiare brevemente questa figura, perché le sue difficoltà sono esattamente le nostre. Anche noi, spesso, pur affascinati dallo stile di vita evangelico di Gesù, abbiamo timore di seguirlo; e pur cogliendo con onestà intellettuale la sua chiara autorevolezza divina ci spaventiamo di attestarla dinanzi agli amici o colleghi di lavoro. E anche quando ci decidiamo a conoscerlo più da vicino, ci lasciamo dominare dalle paure e per viltà intraprendiamo un percorso religioso o spirituale di nascosto dagli altri, per evitare le loro critiche.

Le dinamiche appena descritte si rivelano tanto più influenti e condizionanti quanto più è in gioco il nostro nome o l’immagine pubblica che ci siamo costruiti. E allora accade che, arenati in questo groviglio di pensieri e pregiudizi, pur di difendere la presunta solidità delle nostre ragioni, delle nostre idee, delle nostre posizioni e visioni della vita cominciamo a mettere in atto tutto il nostro sistema difensivo, magari criticando aspramente gli altri, o peggio ancora biasimando perfino la loro buona condotta morale. Così facendo, senza accorgerci, rischiamo di vanificare quel lieve “soffio dello Spirito” di cui parla Gesù nel nostro episodio evangelico, precludendoci la possibilità di sperimentare la libertà a cui Cristo intende condurci.

Ma cosa fare in queste circostanze e come superare questi pregiudizi, resistenze, paure, viltà che spesso ci dominano e non poche volte ci impediscono di realizzare il nostro anelito spirituale più autentico? La risposta ce la offre lo stesso Gesù, quando prendendo atto dei limiti di Nicodemo, gli dice: “In verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3). “Rinascere dall’alto” è l’espressione metaforica con la quale Gesù in altri contesti, traduce l’invito, anzi, la necessità della “conversione” (cf. Mt 18,3), come atteggiamento previo per la comprensione della sua mentalità evangelica. Si tratta di un rinnovato approccio o modo di pensare la realtà di Dio, che chiaramente era del tutto nuova rispetto alla mentalità religiosa di Nicodemo, fondamentalmente legalista e giuridica. Per l’acquisizione della logica crucis Gesù prevede il rinnegamento di sé o, come suggerisce san Paolo, lo “svuotamento di sé”, che consiste nella rinuncia della propria razionalità, della propria intelligenza cognitiva, fino ad “assimilare gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”, ovvero il suo modo di pensare, la sua intelligenza creativa, la sua sensibilità spirituale, il suo modo di operare nel mondo, profondamente animato dall’amore per Dio e per l’uomo (cf. Fil 2,5-7).

Il che fa capire che la conversione non è affatto un cammino idilliaco, al contrario prospetta un percorso impegnativo, fatto di tappe spirituali esaltanti e inebrianti, ma anche di momenti difficili, critici e perfino sterili, come possono essere quelli che sperimenta il popolo d’Israele nel deserto, dove dinanzi alle difficoltà e alle responsabilità che comporta il cammino di libertà, preferisce evaderle e rimanere attaccato ai ricordi dei benefici della schiavitù d’Egitto. Si capiscono allora le sue continue mormorazioni[2]. Questo modo di mugugnare, lagnarsi e lamentarsi continuamente degli altri, col quale spesso pensiamo di dare sfogo alle nostre insofferenze e di reclamare la nostra giustizia, in realtà non fa altro che inaridire gli animi, inasprire i cuori, spegnere gli entusiasmi, generare insofferenze, inacidire il linguaggio, renderci impazienti e intolleranti, offuscare l’intelligenza e svilire la nostra comunione con Dio, fino a creare un vero e proprio deserto dentro di noi e intorno a noi. La drammatica situazione di morte che ne consegue – che l’autore del libro dei Numeri esprime attraverso l’episodio dell’invasione dei “serpenti velenosi” – è solo il risultato di un progressivo allontanamento da Dio, provocato dalle nostre scelte esistenziali, magari giustificate anche razionalmente, ma che ci impediscono di cogliere la sua presenza e ancor più il suo piano salvifico nella nostra vita. Da qui la necessità di una reale conversione, che tracci il cammino di ripresa della relazione con Dio e che il libro dei Numeri ci riferisce attraverso la presa di coscienza del proprio peccato da parte del popolo: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti[3]” (Nm 21,7). Ma la conversione generata dalla paura della morte – come sembra emergere da questo episodio – difficilmente si rivela sincera e autentica, come rileva l’autore del Salmo 77, quando facendo memoria di questi episodi storici, afferma che nei momenti di morte “lo cercavano / e tornavano a rivolgersi a lui / … lo lusingavano con la loro bocca, / ma gli mentivano con la lingua: / il loro cuore non era costante verso di lui / e non erano fedeli alla sua alleanza”. Ma nonostante tutto “lui, misericordioso, perdonava la colpa”.

Può apparire irrazionale ma questo cammino di conversione, finora tratteggiato, che apparentemente sembra profilare l’annientamento della nostra vita o segnare la morte della nostra personalità e impedirci lo sviluppo della nostra libertà, costituisce in realtà il modo più autentico per essere pienamente noi stessi. Esso ripercorre esattamente quello compiuto da Gesù, il quale – come ribadisce ancora una volta san Paolo – “pur essendo … Dio … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Quella morte di croce che sembrava costituire l’espressione più eloquente della maledizione di Dio, traccia in realtà la via della salvezza e della vera libertà. E quel Cristo che sembrava essere stato completamente abbandonato da Dio, viene mostrato ora a tutti glorioso, per aver obbedito fino in fondo alla sua volontà salvifica. “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù … ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore! A gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11). Ed è proprio qui il segreto e la ragione dell’esaltazione della croce. Essa ci svela l’importanza di scendere, con Gesù, negli inferi della nostra umanità, accettando fino in fondo i limiti della nostra condizione. E partecipando di questa dinamica che anche noi potremo ripetere le parole di san Paolo “completiamo con la nostra vita ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa” (cf. Col 1,24).

È questa la logica assurda che la Chiesa ritiene di esaltare. Può sembrare inverosimile, ma essa costituisce la vera via di libertà, l’unica in grado di condurci alla pienezza della nostra esistenza.

 

 


[1] La fatica – come dice San Paolo nella prima lettera ai Corinti – scaturisce dal fatto che quella in questione è “una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo … ma è una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta ... Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla” (1Cor 2,6-8). E come tale ci appare preclusa alla nostra intelligenza, come ribadisce lo stesso Paolo nella lettera ai Romani: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore?” (Rm 11,33-34).

[2] “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero” (Nm 21,5). “Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna” (Nm 11,4-6).

[3] È interessante notare come il serpente che nel libro della Genesi viene apostrofato come simbolo di inganno e di peccato, viene ora riscattato fino a diventare simbolo di vita.

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