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14 Luglio 2024 - Anno B - XV Domenica del Tempo Ordinario








Am 7,12-15; Sal 84/85; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13


Il metodo evangelizzativo di Gesù


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La missione degli Apostoli (inizio XIII sec.), Codex Vindobonensis, Österreichischen Nationalbibliothek, Vienna

“Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche. E diceva loro: ‘Entrati in una casa, rimanetevi fino a che ve ne andiate da quel luogo. Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi, a testimonianza per loro’. E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6,7-13).

Subito dopo la deludente e drammatica esperienza nazaretana (cf. Mc 6,1-6a), Gesù invia i suoi discepoli a compiere la loro prima esperienza missionaria (cf. Mc 6,6b-13), come a voler sottolineare che malgrado le evidenti opposizioni, l’annuncio evangelico non ammette soste. Gesù stesso “andava attorno per i villaggi, insegnando” (Mc 6,6), continuando la sua missione evangelica, senza tergiversare, anzi, più che mai deciso a rimanere fedele a quel principio che Marco pone all’inizio della sua predicazione pubblica: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15).

Non sarà stato facile per gli apostoli andare a predicare in giro dopo aver assistito alle evidenti opposizioni e perfino alle minacce di morte che i nazaretani mossero nei confronti del loro maestro (cf. Lc 4,28). Noi non sappiamo come essi reagirono a questo invito di Gesù, ma non è difficile immaginare i loro timori e pensieri: se perfino i compaesani e i parenti ebbero da ridire sul maestro, quanto di più avrebbero fatto gli estranei nei loro confronti? Ma evidentemente a Marco – sempre sobrio nella sua descrizione narrativa – non interessa affatto questa analisi introspettiva. Così come non si preoccupa neppure di riferirci il contenuto dell’annuncio missionario. Sono tutti aspetti che l’evangelista sembra dare per scontato, o demandare all’immaginazione spirituale del lettore. Ad ogni modo si tratta di aspetti che non è difficile intendere, visto lo stile missionario di Gesù.

Un aspetto, invece, sembra attirare l’attenzione di Marco: il metodo evangelizzativo di Gesù, che l’evangelista ci riporta in questi temini: “oltre al bastone, non prendete nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossate due tuniche ... ”. Queste raccomandazioni non mirano solo a stabilire un clima di povertà missionaria, quanto a creare le condizioni per un’estrema fiducia nel Padre, inteso come colui che provvederà ad ogni loro necessità. Pertanto dovunque essi arrivino non devono aver timore nel chiedere ospitalità: “Entrati in una casa, rimanetevi fino a che ve ne andiate da quel luogo”, “mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio ha diritto alla sua mercede” (Lc 10,7).

La povertà, dunque, è lo stile che Gesù chiede ai suoi discepoli, perché questo è il suo stile di vita. Non si tratta di privarsi del necessario – neppure Gesù l’ha fatto se non in circostanze estreme (cf. Mt 4,1-11) – ma di condividere il di più. La povertà non è mai fine a se stessa, ma costituisce la via della vita evangelica; e non richiede i sacrifici della privazione, specie quando questi non sono dettati dalla libertà e dalla gratuità, ma è la condizione per vivere nella totale fiducia della Provvidenza divina, esattamente come dice il salmista “Come gli occhi della schiava / alla mano della sua padrona, / così i nostri occhi sono rivolti al Signore” (Sal 122); o ancora “non ha mai visto il giusto abbandonato, né i suoi figli mendicare il pane” (Sal 37,25). Pertanto non c’è altro modo per vedere all’opera la Provvidenza se non quello di rinunciare ad ogni risorsa umana. Il discepolo di Gesù non è chiamato a distribuire i beni – neppure avrebbero potuto farlo dal momento che non ne disponevano – ma ad elargire senza misura l’amore di Cristo: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Ecco il tesoro che essi dovranno condividere. E in questo dovranno dipendere in tutto e per tutto dal Padre che è nei cieli. La totale fiducia nella Provvidenza è il segno della presenza operante di Dio in loro.

Si tratta di condizioni che, a dire il vero, a noi spaventano un po’, perché ci riferiscono di uno stile di vita del tutto lontano dalla nostra logica consumistica. Esse richiedono una radicalità che sappiamo di non avere, perciò ci appaiono utopistiche. Anzi sembra proprio che quest’esigenze evangeliche di Gesù siano addirittura esagerate. E ad essere onesti, pur volendo, non sappiamo neppure in che termini potrebbero essere realizzate nell’oggi della nostra vita sociale. Il benessere esercita un potere molto suggestivo su di noi, del quale difficilmente riusciamo a fare a meno, specie se consideriamo la fatica che esso ci è costato e ci costa nel conquistarlo. Ma più che fermarci ad esprimere valutazioni morali, che pure sarebbero importanti per un serio e onesto confronto con la povertà evangelica di Gesù, cogliamo, invece, l’occasione per sviluppare un discorso più profondo e possibilista in termini di attuabilità. Sono convinto che prima ancora di sforzarci a capire come imitare la povertà evangelica, oggi, occorre più che mai capire come sposare la logica che la governa. Si tratta perciò di aderire alla mentalità evangelica di Cristo, ovvero alla fiducia nella Provvidenza del Padre. È su questa base che la povertà potrà essere incarnata nei contesti culturali in cui viviamo. Non si tratta quindi solo di creare strategie pastorali che ne rendono attraente l’annuncio, ma di lasciarsi totalmente rinnovare dallo Spirito evangelico di Cristo. È lo Spirito che evangelizza in noi e con noi. È lui che trasforma la nostra mentalità e la rende idonea a creare nuovi linguaggi, metodi e forme di evangelizzazioni, capaci di rispondere alle rinnovate istanze spirituali dell’uomo contemporaneo. È lo Spirito che ci persuade interiormente e ci fa credere che il Vangelo non può attuarsi che seguendo la stessa logica relazionale che lo anima. Il Vangelo cresce in forza del Vangelo stesso, ed esso avanza vivendolo. Il valore che Gesù attribuisce alla testimonianza di vita, perciò, non è inferiore a quella verbale. Il vissuto è il linguaggio più autorevole, immediato, loquace e persuasivo che ci sia. Le parole possono proclamare l’amore, ma solo chi lo vive può renderlo visibile e credibile. Il vissuto è il modo più efficace per raccontare l’amore che essi hanno appreso stando con Gesù. Gli stessi miracoli che Gesù dà loro il potere di compiere attestano la loro totale fiducia nella presenza operativa di Dio in loro: “Scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6,13)[1]. La povertà materiale e ancora più quella nello spirito (cf. Mt 5,3), dunque, è la condizione che permette a Dio di esercitare liberamente il suo potere in noi. Si capisce perciò l’insistenza di Gesù sull’importanza della testimonianza che gli apostoli dovranno dare durante la loro missione. Anzi è proprio questa a confermare e a rendere più autorevole e convincente l’annuncio verbale. Senza di essa la Parola di Gesù rischia di rimanere lettera morta.

Ad avvalorare l’importanza della testimonianza è la modalità con cui Gesù invia i suoi apostoli. Stando a Marco, essi vengono inviati solo dopo essere stati per un periodo di tempo con Gesù: “Ne costituì Dodici che stessero con lui” (Mc 3,14)[2]. È durante questo periodo di ‘apprendistato’ che essi assimilano la metodologia evangelica del maestro. Lo “stare con Gesù” diventa per loro il grembo originario, nel quale cominciano a familiarizzare con la vita divina. È qui che essi imparano la grammatica dell’amore trinitario, con la quale reiscriveranno e risignificheranno le relazioni tra le persone. L’amore al quale vengono formati costituisce per loro non solo il contenuto del messaggio evangelico, ma caratterizza anche la metodologia evangelizzativa del loro maestro. Gesù li invia “a due a due” (Mc 6,7) non tanto per sostenersi a vicenda, quanto per creare le condizioni dell’amore evangelico. Se l’amore è relazione “due” è il numero primo dell’amore. Non si può amare che in due. “Due a due” costituisce allora la formula della reciprocità, ovvero la condizione fondamentale della relazione trinitaria. Essa è la forma distintiva della vita evangelica, quella che rende testimonianza della natura divina di Cristo dalla quale egli ha origine, ed è la condizione per incarnare la sua vita trinitaria nel mondo. Solo quando l’amore diventa reciproco genera la presenza di Gesù in mezzo a loro, lo rende cioè visibile, secondo il detto dello stesso Cristo: “dove due o più … lì sono io presente in mezzo a loro” (Mt 18,20). Pertanto la reciprocità è segno che la loro relazione interpersonale è fecondata dallo Spirito. Egli è il terzo invisibile che trasforma la relazione interpersonale in relazione trinitaria. Lo Spirito è la luce che irraggia da questo amore trinitario e crea le condizioni per la vita ecclesiale.

Il percorso formativo dei discepoli dunque non sembra finalizzato a “rimanere con Cristo”, ma è destinato a sfociare in quell’attività missionaria, con la quale essi dovranno creare le condizioni ecclesiali perché la vita nel mondo diventi uno “stare con Cristo”. Nell’andare i discepoli non dovranno fare altro che raccontare il vissuto della loro comunione con Gesù e testimoniarla col vissuto della loro relazione reciproca. Il Vangelo è null’altro che la vita trinitaria nel mondo. L’amore – dice san Paolo - è l’unica eredità che i discepoli ricevono da Cristo: “In lui anche voi … avete ricevuto il sigillo dello Spirito … il quale è caparra della nostra eredità” (Ef 1, 13-14), ed è l’unica realtà che essi dovranno trasmettere alle persone che incontreranno.

Ma per quanto i discepoli si sforzino di essere testimoni credibili della comunione di vita divina di Cristo, non saranno mai esenti dai contrasti, resistenze e perfino rifiuti che i destinatari del loro annuncio potranno mostrare. E ciò a causa di Cristo e del suo Vangelo. Gesù preannuncia loro che saranno oggetto di dissenso, esattamente come è stato per lui stesso: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,20). Pertanto lì dove essi troveranno resistenza sono invitati a scuotere perfino la polvere dai sandali, ovvero a liberarsi di ogni vincolo o legame che possa in qualche modo avere una forma di responsabilità nei loro confronti. Il rifiuto non è una forma di negligenza o fragilità spirituale momentanea, ma è una decisione libera e consapevole che essi prendono nei loro confronti. In questi casi saranno loro a rispondere direttamente delle proprie decisioni. Il dissenso e il rifiuto, d’altra parte, sono anche prove dell’evidenza evangelica: “guai quando tutti diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6,26).

L’esperienza vissuta nella sinagoga di Nazaret, al di là della sua difficoltà, si rivela dunque decisiva perché ha permesso loro di avere un quadro della situazione missionaria e delle reazioni che un simile annuncio può suscitare. La stessa esperienza profetica di Amos, sembra andare in questa direzione. Amos, infatti, per rivalità del sacerdote Amasia è costretto ad abbandonare la città di Betel, nella quale Dio lo aveva inviato: “vattene veggente, ritirati nella terra di Giuda, là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno” (Am 7,12-13). In queste circostanze si rivela decisivo il ritorno alle origini della chiamata, per ritrovare la forza di proseguire nella missione; ed è esattamente quello che fa il profeta, quando nel rispondere ad Amasia, ritorna alle radici della sua chiamata: “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Và, profetizza al mio popolo Israele” (Am 7, 14-15). È qui il segreto che permette ad ogni discepolo di ricominciare ad evangelizzare dopo un insuccesso. Qui il segreto per custodire la libertà evangelica e non lasciarsi mai asservire da qualsiasi forma di potere, politico o religioso che sia.

 

 

[1] Questa lezione l’avevano appresa bene Pietro e Giovanni, quando nel guarire lo storpio Pietro disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina” (At 3,6). Probabilmente se avessero avuto argento e oro, avrebbero fatto un’opera buona, ma di certo non avrebbero guarito allo storpio dalla sua malattia. Lo stesso David per vincere il temibile gigante Golia, dovette liberarsi dell’armatura che il re gli aveva generosamente messo a disposizione: “Non posso camminare con tutto questo” (1Sam 17,39). Ed anche a Gedeone Dio chiede di ridurre il suo potente esercito da 30.000 a 300 uomini, come condizione per sconfiggere i madianiti (Gdc 7,1 ss) (cf. S. Fausti, Vangelo di Marco). Ed infine anche san Paolo da parte sua ribadisce: “Mi compiaccio delle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo. Infatti quando sono debole è allora che sono forte” (cf 2Cor 12, 10).

[2] Il desiderio di vedere realizzato il regno di Dio nel mondo, porta Gesù a condividere la sua ansia evangelica con alcuni discepoli, che lui sceglie personalmente (cf. Mc 1,16-20; 2,13-14): “chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui”. “Ne costituì Dodici che stessero con lui”; ma “anche per mandarli a predicare” (cf. Mc 3,13-14). Nell’arco di due semplici versetti l’evangelista Marco traccia l’itinerario di conversione di questi discepoli, lasciandoci intravedere alcuni fondamentali e decisivi passaggi spirituali: la chiamata, che li porta a compiere il passaggio da individui a discepoli; la costituzione dei Dodici, che li porta a diventare comunità ‘ecclesiale’ intorno a Gesù; il mandato missionario che li proietta ad essere apostoli nel mondo.

 
 
 

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