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14/06/2020 - Santissimo Corpo e Sangue di Cristo Anno A


Dt 8,2-3.14-16; Sal 147; 1 Cor 10, 16-17; Gv 6, 51-58


Eucaristia: il gusto dell’eternità

Celebriamo oggi la solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Un mistero insondabile come quello trinitario, appena celebrato, che mette senza dubbio a dura prova la nostra ragione e la nostra fede. È importante, perciò, accostarci ad esso in punta di piedi, invocando lo Spirito Santo, affinché apra la nostra mente alla sua comprensione (cf. Lc 24, 35), consapevoli che solo all’interno di una relazione di fede con Cristo, esso si dischiude alla nostra intelligenza.

Tutto il senso della nostra fede eucaristica ruota intorno a questa affermazione di Gesù: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6, 51). Si tratta com’è evidente di un’affermazione audace, profonda, impegnativa, che suona effettivamente dura e pretenziosa alle orecchie degli ascoltatori di tutti i tempi. Un’autentica sfida che Gesù rivolge a chiunque si accinge a intraprendere con lui un cammino di fede. È importante quindi accoglierla, per uscire da una visione tradizionale e abitudinaria di fede, che troppo spesso dà per scontato ogni comprensione teologica e prendere coscienza di quella presenza mistica di Cristo in essa che ci fa intuire e provare sin d’ora il gusto dell’eternità. In questo senso si rivela determinante per noi quella considerazione che ha portato Pietro e con lui gli apostoli, a dire: “Signore da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 68-69). Questa professione di fede costituisce perciò la meta del nostro cammino spirituale ed ecclesiale e diviene tanto più importante quanto più scopriamo che è stata preceduta da quelle stesse difficoltà e resistenze che sperimentiamo anche noi nella nostra vita quotidiana. Anche noi, infatti, come alcuni dei suoi discepoli, ci ritroviamo a dire, magari tacitamente: “questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? (Gv 6, 60) o a pensare addirittura di allontanarci, come fecero molti di loro: “Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” (cf. Gv 6, 66). Questa reazione potrebbe diventare anche la nostra se non mettessimo a fuoco le ragioni della fede. A questo riguardo ritengo opportuno allargare il nostro sguardo a tutto il discorso che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6, 22-70), a seguito della moltiplicazione dei pani (Gv 6, 1-15). Esso costituisce il punto di partenza delle affermazioni di Gesù sul pane di vita eterna.

Vi invito perciò ancora una volta a leggere l’intero capitolo sesto del Vangelo di Giovanni per capire cosa rende difficile la fede eucaristica? Cosa fa davvero problema ai Giudei e anche a noi? Provo a ricostruire il dibattito nella speranza di mettere a fuoco il nocciolo della questione. Davanti all’affermazione di Gesù: “Io sono il pane disceso dal cielo”, i Giudei rispondono: “Quale segno tu fai perché possiamo crederti?” (v. 30). Essi chiedono un segno che renda evidente l’autorità profetica di Gesù, al pari di quella mosaica, che la manifestò con i segni della manna venuta dal cielo e dell’acqua scaturita dalla roccia (cf. Dt 8, 15-16). In realtà essi più che un segno cercano solo prove per confutare le affermazioni di Gesù e screditare la sua autorità e lo fanno fondando il loro scetticismo su alcuni dati di fatto: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe. Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: sono disceso dal cielo?” (v. 42); “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (v. 52). Da qui la risposta di Gesù che evidenzia in primo luogo l’atteggiamento che essi dovranno assumere, se intendono veramente riconoscere la sua autorevolezza: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha inviato” (Gv 6, 29), tuttavia ciò non è possibile senza essere mossi dal Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato … Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (v. 44. 45). Si tratta di un riconoscimento imprescindibile, fondamentale, senza il quale nessuna fede in Cristo è possibile, benché meno nell’eucaristia, perciò è un autentico scoglio per chi si accinge ad impostare il cammino solo sotto l’aspetto empirico e razionale.

In realtà lo scetticismo dei Giudei nei confronti Gesù ha radici ben più profonde. Esso si fonda su quello verso Dio. Essi infatti non credono in Gesù perché prima di tutto non credono nel Padre, come colui che lo ha inviato: “Voi non avete mai udito la sua voce né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha inviato” (Gv 5, 37-38). In altre parole, essi non credono in Gesù perché non sono disposti a riconoscere che le sue opere vengono dal Padre (cf. Gv 10, 30-38; 14, 10-11), al contempo, non credono nel Padre perché non intendono riconoscere l’intima relazione che sussiste tra Gesù e il Padre: “Io e il Padre siamo una sola cosa” (Gv 10, 30). Si tratta di un dinamismo relazionale nel quale bisogna entrare se si vuole cogliere l’autorità divina di Gesù.

Le resistenze e le difficoltà che si provano nell’accedere a questa relazione intima e divina tra Dio e Gesù sono provate anche dal fatto che l’evangelista Giovanni torna spesso sull’argomento, in tutto il suo Vangelo, quasi a lasciarci intendere il modo con cui egli concepisce la fede. Più che un cammino lineare scandito da tappe, essa consiste in una dinamica relazionale, caratterizzata da esperienze sempre più profonde di Dio, che si susseguono con un andamento sinfonico: il Padre rivela l’autorità del Figlio nella comunione dello Spirito (cf. Lc 9, 35) e il Figlio rivela l’identità paterna di Dio, nella comunione dello stesso Spirito (Gv 14, 11). Fuori da questa relazione ci si espone al rischio dello scetticismo razionale, come fanno i tutti coloro che si sottraggono alla comunione d’amore dello stesso Spirito, esattamente i Giudei. Si tratta di una dialettica tra resistenza, fede e scetticismo che ritroviamo anche nella nostra esperienza spirituale, perciò vi invito a metterla a fuoco, non solo perché essa ci fa capire i presupposti della nostra fede in Cristo, ma anche per capire le ragioni di chi, come i Giudei, anche oggi, motiva il rifiuto di Cristo. Giovanni sviluppa questa dinamica attraverso un linguaggio simbolico, dove ogni significato si risolve sulla base di un duplice livello: esteriore e interiore, visibile e invisibile. Essi si richiamano a vicenda, l’uno nell’altro, in modo complementare. Il primo offre una serie di segni che hanno la funzione di orientare il cammino del discepolo verso una progressiva maturazione. Attraverso questi segni Giovanni invita costantemente a compiere il passaggio da una comprensione empirica ad una teologica. Solo chi giunge a questa seconda comprensione ha modo di radicarsi nella fede in Cristo. E’ a questo secondo livello che lo Spirito ci schiude il significato del pane eucaristico.

Ma cos’è effettivamente l’ eucaristica? Paolo è di una profondità abissale. Nella sua prima lettera ai Corinzi egli la spiega in termini di comunione d’amore (cf. 1 Cor 10, 16-17) che porta il discepolo a condividere la stessa logica di vita di Gesù che si fa dono per l’altro. Ecco la ragione che fonda la nostra comunione con Cristo, il segreto che rende possibile l’unità ecclesiale e il senso che motiva il nostro amore per l’uomo e per il mondo. Si tratta dunque di un luogo che ci lascia intravedere, sin d’ora, la bellezza della vita eterna e la gioia della comunione trinitaria.

Tuttavia a questa comunione non si giunge in modo idilliaco, ma solo passando attraverso il deserto, la cui funzione viene emblematicamente descritta nella prima lettura: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame … per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di ogni (parola che) esce dalla bocca di Dio” (cf. Dt 8, 2-3).

Il deserto, nel quale Dio introduce il suo popolo non è appena un luogo geografico, ma una prova necessaria, nella quale viene condotto chiunque decide di intraprendere seriamente un cammino di vita spirituale ed ecclesiale. Si tratta di entrare in una logica di purificazione della mente, del cuore e della memoria, attraverso un cammino di precarietà esistenziale, di nomadismo spirituale e di intelligenza pellegrinante, col quale Dio ci educa a scoprire l’essenzialità della vita, spogliandoci gradualmente di tutto, perfino del necessario, per giungere solo all’indispensabile. Il deserto nel quale Dio introduce anche noi può assumere diverse forme, come quella di una crisi spirituale personale, con la quale ci educe a scoprire il senso della vita e a maturare le nostre scelte esistenziali; oppure quella della recente crisi pandemica, nella quale tanti di noi hanno preso coscienza del senso transitorio dell’esistenza. Abituati come siamo a vivere una vita complessa e articolata come la nostra, questa esperienza del deserto ci appare lontana e per certi versi ci spaventa un po’, eppure si rivela quanto mai indispensabile, se non altro per prendere coscienza e chiedere perdono di quella enorme ‘distanza sociale’, che si è venuta a creare perfino nella Chiesa, tra il nostro individualismo e quella comunione eucaristica voluta da Gesù.

 
 
 

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