13 Ottobre 2024 - Anno B - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 12 ott 2024
- Tempo di lettura: 10 min
Sap 7,7-11; Sal 89/90; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30
Uno sguardo d’amore libero e liberante

“Un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: Maestro buono cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna? … Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e disse: una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” (Mc 10,21-22).
Questa citazione che prendiamo dall’episodio evangelico noto come l’incontro col giovane o notabile ricco, come preferisce chiamarlo Luca, ci porta dritti all’essenza della fede cristiana che consiste nell’avere una personale relazione con Cristo, dal cui volto traspare uno sguardo che rivela tutto l’amore libero e liberante di Dio su di noi.
Ma proviamo a ricostruire subito la scena evangelica, per evitare che questa esperienza rimanga astratta e avulsa dalla realtà quotidiana. Essa ci riferisce di “un tale” (Mc 10,17) che Marco, come tutti i Sinottici, preferisce lasciare nell’anonimato, benché abbia avuto con Gesù un colloquiospeciale, come pochissimi altri. I Sinottici ci raccontano di questi colloqui di Gesù solo in casi eccezionali. Neppure della chiamata degli apostoli ci riferiscono tutti questi dettagli. In questo caso Marco invece si sofferma su un aspetto decisivo e fondamentale per ogni forma vocazionale: l’esperienza d’amore. Ebbene l’evangelista ci dice che questo “tale” corse incontro a Gesù e, gettandosi in ginocchio, gli domandò: “Maestro buono cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17). Una domanda fondamentale quella che costui pone a Gesù, ma che nell’attuale contesto sociale e perfino cristiano, sembra aver perso ogni significato. La vita eterna pare non suscitare più alcun interesse e attenzione in noi, impegnati come siamo a “consumare” tutta la nostraesistenza nel “qui ed ora” della vita terrena. Al contrario essa è una domanda decisiva per chi intende dare un senso alla vita presente. Se essa non ci sovviene significa che riteniamo la vita eterna superflua e quella presente l’unica forma di vita di cui godere appieno.
È interessante notare che a porla non è un peccatore che chiede di cambiare vita, ma un pio ebreo osservante, il quale non chiede di passare dal male al bene, ma dal bene al meglio, o per meglio dire, dal meglio all’ottimo. Non si tratta di una svolta morale, ma spirituale, con la quale Marco sembra volerci descrivere il passaggio dalla religione mosaica alla fede cristiana. L’evangelista tratteggia la situazione di chi è giunto al limite di un modo moralistico di vivere la religione, per il quale ha dato l’anima, ma che si è rivelato limitato e inappagante. Quel tale è come animato dal desiderio struggente di ‘un di più’ che però nessuno riesce ad offrirgli. Da qui l’idea di rivolgersi a Gesù. Ma lo fa in modo concitato, con affanno, tipico di chi è giunto all’epilogo di una gestione fallimentare della vita. Una situazione angosciante, della quale non regge più il peso. E ora avverte il bisogno di liberarsi da questo stato asfissiante e logorante che gli procura una condizione umiliante e lo tiene asserragliato. Perciò, in ginocchio, come a prostrarsi, si getta ai piedi di Gesù, supplicandolo. “Maestro … cosa devo fare per avere … la vita eterna?”, come a dire: cosa devo fare per liberarmi di questa gabbia che mi sono costruito negli anni? Gesù nel vederlo prova compassione per lui. Lo lascia parlare, lo ascolta e quando capisce che è arrivato il momento, lo interrompe e gli pone alcune domande con le quali lo aiuta a riportarsi all’origine del suo itinerario religioso, così da fargli fare memoria della sua scelta di vita: “Tu conosci i comandamenti …”. Ma lui subito precisa di averli vissuto fedelmente, sin da ragazzo: “Maestro tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (Mc 10,20). È importante questa operazionedi memoria. Talvolta essa ritorna a galla in modo naturale quando ci ritroviamo a dover compiere delle scelte decisive per la nostra esistenza. Ripercorrere a ritroso i momenti principali della nostra vita significa riandare alle origini delle nostre decisioni, per capire la ragione originaria che motiva ogni nostra scelta. Solo lì ritroviamo il senso della nostra esistenza e la forza per continuare a perseverare nelle vicende della vita, specie quelle più difficili.
Una volta verificata questa condizione, Gesù gli propone di compiere un passaggio ardito, non più determinato dalla volontà, nella quale lui era più che ferrato, ma dalla libertà. Gli chiede di passare da una vita religiosa fatta di precetti morali, fondati sull’imperativo categorico: fai! Ad una vita di fede animata dalla libertà dell’amore evangelico, fondata sul posso! Ecco la nuova dimensione religiosa alla quale Gesù intende portarlo. Non è difficile perciò immaginarlo mentre gli ribadisce un suo detto: la legge è stata fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge (cf. Mc 2,27). Gesù gli propone una sorta di ‘nuovo esodo’, da compiere questa volta però in modo spirituale. Si trova tuttavia davanti una persona integerrima, impeccabile, o almeno presume di esserlo. Questo tipo di consapevolezza è pericoloso, perché può essere sintomo di un’arroganza spirituale. Un po’ come quella del fariseo nella parabola di Gesù, il quale, stando in piedi a pregare, elencava tutte quelle qualità che esaltavano la sua intransigenza moralee religiosa (cf. Lc 18,10-14). Se è vero che trovò il coraggio di chiedere aiuto, è anche vero che serpeggiava in lui la tentazione di pilotare l’intervento di Gesù a suo favore. Marco tratteggia dunque la situazione di questo tale come quella di chi è giunto al limite della ‘schiavitù’ morale, tipica di chi vive la religione in modo servile e pauroso. Egli ha profuso tutte le sue energie in essa, esercitando fino in fondo la fedeltàalla legge, ma nonostante ciò non si sente libero. Avverte il bisogno di uscire dai suoi schemi, ma non riesce più a farlo da solo. Perciò quando viene a sapere che Gesù stava passando di lì, pensa di cogliere subito l’occasione. E Gesù non esita ad offrirgliela. Una volta davanti a Gesù, egli percepisce che sta lì lì per tradurre questa possibilità in una reale esperienza. Si trova ad un passo dalla libertà, ne intuisce l’ebrezza, ma ha paura delle vertigini esistenziali che essa comporta. Vorrebbe assaporarla, ma è attraversato dal brivido del suo crinale. Perciò rimane ingabbiato nel suo sistema religioso; bloccato dalle sue convinzioni moralistiche e quindi incapace di compiere una scelta autentica. Al totale e definitivo affidamento a Dio, che Gesù gli propone, egli preferisce rimanere nella sicurezza della sua ragione, con la quale pensa di continuare a tenere tutto sotto controllo. Insabbiato inquesta operazione interiore, quel ‘di più’ che cercava e aveva percepito in Gesù, si dissolve improvvisamente in un nulla di fatto.
Come interpretare questa situazione? Ha qualche affinità con la nostra vita religiosa? Non si esclude che la mentalità ereditata da questo tale – nella quale era cresciuto maturando intime convinzioni – lo aveva abituato a concepire la vita eterna come la ricompensa dei suoi impegni morali; una sorta di premio finale, conquistato per mezzo della sua volontà e delle sue irreprensibili virtù morali. Lo voglio, dunque l’ottengo. È il motto di quelli che fondano tutto sulla forza di volontà personale. Una “volontà di potenza” direbbe il filosofo Nietzsche, ma che solo apparentemente lascia spazio alla libertà. Questa mentalità induce a pensare di dover “fare” qualcosa per ottenere l’eternità. In questo senso ogni sforzo morale e religioso merita una ricompensa. Esattamente come accade per la logica economica, della quale – a giudicare dalle ricchezze di cui disponeva – era piuttosto esperto. Gesù invece lo disarma con un atteggiamento che lo porta all’origine e all’essenza dell’esperienza spirituale. E lo fa senza proferire una parola: “fissatolo lo amò”. Con uno sguardo intenso e pregno d’amore, Gesù lo rende partecipe della bontà di Dio, che lui evidentemente riconosce anche a Gesù, dal momento che lo chiama “Maestro buono” (Mc 10,17).
“Fissatolo lo amò”, non è un sentimento affettivo, sia pure profondo e genuino, che Gesù prova per quel tale, ma la condizione spirituale fondativa che precede, favorisce e accompagna tutte le scelte fondamentali della vita. Nessuna scelta, ancora meno quella della salvezza, può compiersi fuori dall’amore di Dio. Fuori di questo amore la salvezza è solo una proiezione religiosa di un desiderio umano. Col solo sguardo Gesù gli fa capire che la salvezza non era il risultato dei suoi sforzi religiosi e neppure delle sue virtù morali, ma un dono gratuito di Dio. Semmai avesse voluto “fare”veramente qualcosa, allora gliene rimaneva solo una: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri … poi vieni! Seguimi!” (Mc 10,21).
Una richiesta questa di Gesù che gli “trafigge” il cuore, come una “spada a doppio taglio che giunge fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, fino a discernere i sentimenti e i pensieri più profondi del cuore”, come afferma l’autore della lettera agli Ebrei 4,12; o ancora come attestano le parole di Simeone a Maria: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35); e di Pietro agli astanti durante il suo discorso nel giorno di Pentecoste: “All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore” (At 2,37). Ma a differenza di costoro egli si sottrae, perché incapace di resistere allo sguardo profondo di Gesù. Quanto è difficile per chi è abituato ad immaginare l’amore solo nella sua forma attiva, sperimentarla anche in quella passiva, che consiste nel lasciarsi amare gratuitamente da quelle stesse persone che si è amati con tanto impegno. Eppure la salvezza è tutta qui, come ribadisce il celebre passo di Isaia: “O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro” (Is 55,1). Per salvarsi non occorre realizzare una straordinaria impresa religiosa, fondare un movimento ecclesiale o compiere chissà quale sacrificio morale, basta lasciarsi amare da Dio … gratuitamente. Quel tale, invece, si era impegnato ad osservare i comandamenti di Dio, ma non a lasciarsi amare da lui. Lasciarsi andare all’amore di Dio, era ciò che gli mancava. Cos’è la salvezza se non l’affrancamento da tutti quei vincoli terreni che impediscono allo spirito di essere libero. È questa la svolta alla quale voleva condurlo Gesù, ma lui abituato solo ad osservare i precetti, trova difficile lasciarsi liberare dall’amore. E dinanzi alle parole “si fece scuro in volto e se ne andò triste” (cf. Mc 10,22). La questione non era solo la ricchezza, ma la mancanza di fiducia nella parola di Gesù, perché anche altri nella stessa situazione, fidandosi, hanno trovato il coraggio di tagliare definitivamente i vincoli con le proprie ricchezze e sicurezze.
Ad ogni modo la richiesta di Gesù lo sconvolge, lo disorienta, lo confonde. All’improvviso tutta quell’architettura religiosa che si era faticosamente costruita negli anni e che gli aveva fatto credere d’essere un uomo pio, zelante, diligente, volenteroso, capace di ottenere tutto ciò che voleva, viene a cadere sotto i colpi dell’amore gratuito, libero e liberante di Gesù. La percezione della libertà lo sconvolge, lo destabilizza. Abituato com’era ad avere tutto schematizzato, prestabilito e ad eseguire solo quello che gli altri decidevano per lui, per la prima volta si ritrova catapultato nella dimensione della libertà, nella quale può decidere di seguire finalmente il suo cuore. Un’esperienza inebriante, da vertigini, da estasi che solo chi è abituato a stare in Dio può sostenere. Ma dinanzi a questo abisso di libertà scopre di aver paura d’amare. La gratuità, la libertà, l’amore, si rivelano per lui beni molto diversi da quelli che era abituato a gestire. Essi sfuggono al suo controllo. Perciò si ritrae. Così, quell’incontro che lo aveva condotto sul confine dell’amore si vanifica nel nulla. Incapace di fidarsi di Cristo, non riuscì a varcare la soglia della libertà e a entrare nella relazione d’amore evangelico di Cristo.
Dinanzi ad un simile epilogo Gesù coglie l’occasione di fare una considerazione alquanto dura: “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!”. E come se ciò non bastasse rincara la dose con uno dei suoi paradossi: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” (Mc 10,24-25). All’udire queste affermazioni i discepoli, costernati dicono: “E chi mai può essere salvato” (Mc 10,26). Ma Gesù, quasi ad intuire il loro panico, riaccende in loro la speranza: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché a Dio tutto è possibile” (Mc 10,27). È interessante notare che gli apostoli non dicono: “E chi mai può salvarsi?”, bensì: “Chi di noi può essere salvato?”. Marco sembra voler farci capire che la situazione dei discepoli non è più quella del tale che domanda: “Cosa devo fare”, come se la salvezza dipendesse da loro, ma essi hanno capito che dipende da Dio.
Anche noi come quel “tale” ci ritroviamo ad ereditareuna dimensione religiosa cristiana che per vari motivi abbiamo ridotto solo ad una tradizione culturale. Una tradizione che per quanto conservi ancora qualche elemento positivo, necessita di essere rinnovata dall’interno, attraverso un’autentica svolta che solo l’amore evangelico può compiere. Pertanto se qualcuno dovesse trovarsi in una situazione morale tale da essere indotto a ritenere impossibile la propria salvezza, non perdi mai la speranza: Dio è più grande di ogni peccato. E se dovesse capitare di trovarsi, come quel “tale”, ad un passo dalla libertà, dalla riconciliazione con Dio, dalla salvezza, non esiti a fidarsi di Cristo, egli è più grande delle nostre paure. Non permettiamo al nemico di precluderci la possibilità di varcare la soglia dei nostri dubbi, delle nostre resistenze, delle nostre idee: Cristo è più grande delle nostre convinzioni. E per chi come Pietro dovesse rimanere ancora perplesso della propria scelta di vita, tanto da ribadire a Cristo: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mc 10,38), a costui Gesù conferma ancora una volta la sua parola: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato tutto questo per causa mia e del Vangelo che non riceva già ora … cento volte tanto” (Mc 10,29-30). Tuttavia solo chi ha il coraggio di considerare la propria conoscenzaculturale e religiosa “spazzatura”, come amava affermare san Paolo (cf. Fil 3,8), ha la possibilità di giungere a cogliere la vera Sapienza, dinanzi alla quale i tesori più inestimabili e perfino la salute, la bellezza, la luce risultano solo un po’ di sabbia (cf. Sap 7,7-11). Chi dona qualcosa per amore riceverà il centuplo, ma chi dona se stesso per amore riceverà la vita eterna, ovvero la pienezza della vita divina … insieme a persecuzioni. Ecco lo specifico dell’amore evangelico. Esso non è mai idilliaco, ma sempre attraversato dalla croce. È questa la via dell’amore, dell’amore paradossale di Dio. Perciò non abbiamo paura di essere liberi.
In questa prospettiva mi permetto di suggerirvi di riascoltare alcune mie ultime poesie, come Libero, Desiderio, Silenzio, Pagina d’amore, nel tentativo di solleticare il vostro desiderio di libertà.




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