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12/04/2020 - Domenica di Pasqua - Anno A



At 10, 34a.37-43; Sal 117/118; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9


Cari amici ed amiche, ci angustia l’dea di celebrare la Pasqua, mentre la pandemia ci tiene barricati nelle nostre case. Se da una parte infatti la Pasqua costituisce, nell’immaginario collettivo, il simbolo per eccellenza della salvezza, della liberazione, dall’altra ci appare un controsenso ritrovarsi immersi ancora in quest’esilio forzato. Una paradosso che sembra riflettere le contraddizioni che emergono dal nostro comportamento. Se, infatti, ci si ferma un attimo a riflettere, questa situazione sembra far emergere, con maggiore evidenza, le incoerenze che emergono dalla nostra condotta di fede. Molti di noi infatti pur continuando a professarsi cristiani, vivono una vita che non ha nulla a che fare col Vangelo: mentre ci si sforza di conservare tenacemente le tradizioni religiose e spirituali, si conduce al tempo stesso una vita seguendo una logica borghese e liberale che svuota del tutto il senso della fede, ingenerando una mentalità apparentemente innocente e giustificativa, ma che impedisce la possibilità di sviluppare qualsiasi senso critico, specie in merito al peccato, per il quale, per altro, la Pasqua ha motivo d’essere. Da cosa essere liberati se ci sentiamo perfettamente a nostro agio in questo sistema di benessere che ci siamo dati? E poi perché lasciare questo stile di vita se l’abbiamo faticosamente conquistato, a danno non solo della natura, ma di tanti popoli sistematicamente sfruttati? Ecco le domande alle quali non riuscendo a dare una risposta, ci diviene particolarmente difficile capire il senso della fede. Si capisce allora il disagio di dovere rendere testimonianza di un evento così importante e fondativo per la nostra fede, come la Pasqua, in un contesto culturale come il nostro, senza averne la benché minima conoscenza e memoria teologica. Da qui l’innegabile conseguenza da parte di tanti di lasciarsi andare alla deriva morale e spirituale, con uno stile di vita perfettamente conforme a quello del mondo.

Come uscire da una simile situazione e soprattutto perché farlo? Sarebbe bello rivolgere questa domanda a Mosè e chiedergli come ha fatto a convincere il popolo ebraico ad uscire dall’Egitto, dove, malgrado la schiavitù, aveva raggiunto una forma di vita, per tanti versi come la nostra, perfettamente abituato alla schiavitù. Anche il loro anelito di libertà veniva costantemente anestetizzato da quella forma di benessere, sia pure minima, che veniva di tanto in tanto loro somministrata. Finché non giunse Mosè, che in virtù dello spirito profetico del quale il Signore lo investì, riuscì a ricapitolare la secolare storia del popolo e a condurlo fuori dall’Egitto. (tra parentesi: mi permetto qui di rivolgervi l’invito a leggere, meditando, il libro dell’Esodo, al quale durante la Quaresima e specialmente durante la Veglia Pasquale si fa particolarmente riferimento. Esso racconta infatti l’evento fondativo della fede ebraica, dal quale, la nostra stessa Pasqua cristiana trae origine ed ispirazione). Ma forse ancora più che a Mosè una simile domanda occorrerebbe farla a Gesù. Per capire le ragioni che lo hanno indotto a compiere una simile opera. Già, in cosa consiste l’opera compiuta da Gesù? Cosa egli ha effettivamente fatto per liberarci dal peccato? E soprattutto con quali ragioni egli può indurci, oggi, a credere in lui e vivere la vita nuova inaugurata dalla sua Risurrezione? Personalmente ritengo che siano queste le domande alle quali dare urgentemente una risposta, se vogliamo essere ancora credibili nell’oggi della cultura, più che continuare a praticare, assiduamente, monotoni riti religiosi, di cui abbiamo praticamente smarrito il senso.

Per capire allora il senso pieno dell’Evento Pasquale non basta limitarsi a festeggiarlo nella sola domenica di Pasqua, ridotta ad una sosta, più o meno prolungata, di lavoro. Tale evento non si esaurisce in un preciso giorno della settimana, ma si distende lungo tutto un arco di tempo che va dalla storia di Abramo fino a Gesù e che la Chiesa ripercorre sintetizzandola, attraverso alcune tappe di conversione, distese lungo il tempo di Quaresima. Tappe che personalmente ho cercato, con non pochi sforzi, di tracciare con le omelie che vi ho costantemente inviato, durante questo tempo quaresimale, e alle quali vi rimando, soffermandovi in modo particolare, su quelle del Triduo Pasquale. La Chiesa pur di sottolineare l’importanza di questo evento ci invita a festeggiarlo per una settimana intera, durante la quale siamo invitati a fare costantemente memoria del sacrificio oblativo che Gesù ha compiuto per noi. Ecco allora un primo elemento che va necessariamente recuperato per capire il senso di questo evento: fare memoria, che non consiste solo nel ricordare, ma nel meditare ripetutamente, fino a incidere nel nostro spirito gli eventi salvifici di Cristo e a partire dai quali, sviluppare quell’intelligenza spirituale, che ci consente di coglierne il senso, così da riorientare verso il Vangelo le nostre scelte di vita.

Si rivela, perciò, particolarmente appropriato, a questo riguardo, il discorso che Pietro tiene nella casa di Cornelio (cf. At 10, 34a.37-43), riportato nella prima lettura, dove l’Apostolo riassume tutta la vicenda di Gesù, evidenziando la modalità con cui Dio, attraverso di lui, ha dischiuso il suo piano d’amore presso il popolo, costituendo Gesù come il Figlio nel quale è possibile partecipare già della sua salvezza. Leggiamolo allora facendo memoria insieme a Pietro della storia compiuta da Dio nella nostra vita, sforzandoci di individuare i momenti e le circostanza in cui lui si è reso particolarmente evidente con la sua presenza.

Consapevoli di questa opera compiuta da Gesù, veniamo invitati da Paolo (cf. Col 3, 1-4) a puntare tutta la nostra attenzione sulla novità della vita di Cristo, che costituisce l’obiettivo verso il quale orientare la nostra vita e il fulcro intorno al quale far ruotare la nostra esistenza; coscienti che proprio a partire da questa novità di Cristo, possiamo cogliere il senso delle vicende quotidiane della nostra vita. E’ in questa prospettiva che si comprende la sua esortazione a “cercare le cose di lassù”. È chiaro che lui non ci invita ad alienarci da questa vita, quasi a rifiutare di assumerci le responsabilità che essa comporta, ma a vivere una vita conforme alla risurrezione che abbiamo sperimentato, grazie alla nostra fede. Naturalmente senza un’adeguata esperienza di risurrezione diventa inevitabile puntare l’attenzione solo alle cose di quaggiù. A cercare cioè solo in questa realtà terrena il totale appagamento della nostra esistenza.

Ci sono tuttavia delle condizioni che il Vangelo delinea abbastanza chiaramente e che vanno necessariamente acquisite, se s’intende seriamente partecipare della vita nuova in Cristo. Per delinearle proviamo a guardare l’atteggiamento di Maria Maddalena, dinanzi al sepolcro vuoto, e quello di Pietro e Giovanni, alla notizia che recò loro Maria dell’accaduto. Stando al racconto giovanneo (cf. Gv 20, 1-9), di cui vi invito a leggere anche il brano seguente, fino al versetto 18, Maria, nient’affatto rassegnata della sorte subita dal Maestro, si reca, quando era ancora l’aurora, al sepolcro e lì prende atto di un fatto inaspettato: la pietra con la quale era stato sigillato il sepolcro, era stata ribaltata e il corpo non giaceva più nel sepolcro. Una notizia sconvolgente che lei ritiene di comunicare subito agli apostoli, ancora barricati nel Cenacolo, per paura dei provvedimenti presi dalle autorità religiose e militari. Tra gli apostoli solo Pietro e Giovanni si recano subito, senza indugio, al sepolcro e constatano esattamente come aveva detto loro Maria. Essi entrano nel sepolcro e Giovanni esprime la loro reazione in una formula emblematica, che sintetizza la loro esperienza di fede: “Vide e credette”. Non sappiamo cosa abbiano visto esattamente, considerando che il sepolcro era vuoto e che gli unici elementi del corpo rimasti erano le bende e il sudario, ma la formula di fede che lui usa, ci autorizza ad immaginare il percorso spirituale e intellettivo che essi abbiano fatto in quel preciso momento. In quella circostanza essi hanno esattamente compiuto un atto di fede, non perché hanno scavalcato la ragione e neppure perché hanno omesso lo sforzo intellettivo, tanto meno perché hanno ceduto ad una fede cieca e irrazionale, al contrario perché hanno avuto il coraggio di fare memoria, ovvero di ripercorrere a ritroso tutta la vicenda di Gesù, esattamente come abbiamo visto fare a Pietro nella prima lettura, cogliendone il senso in virtù dello Spirito che dava loro la luce di compiere un vero e proprio atto di intelligenza spirituale, il cui senso sembrava definitivamente dischiudersi dentro di loro. E ciò fu possibile perché entrando nel sepolcro essi non si limitarono solo a compiere un passaggio fisico, ma soprattutto spirituale e intellettivo. Per la prima volta essi aderirono con tutto se stessi alla passione e morte di Cristo, sperimentando quello che san Paolo espliciterà più tardi quando dirà: Se veramente partecipiamo delle sofferenze di Cristo, parteciperemo anche della sua gloria (cf. Rm 8, 17). Non si tratta allora di limitare la nostra fede solo ad un fatto culturale e tradizionale e neppure racchiuderla entro i limiti di un assenso dottrinale e mentale, ma giungere all’assenso reale e spirituale, e tale passaggio avviene solo sposando pienamente la causa di Cristo.

C’è tuttavia ancora l’atteggiamento di Maria che mi preme evidenziare perché anche il suo può rendere ancora più esplicito l’atteggiamento che anche noi, in questa precisa circostanza storica, siamo chiamati ad attuare: la perseveranza, che non scaturisce dalla tenacia o cocciutaggine, ma dalla capacità di rimanere sotto il peso che la responsabilità della fede comporta, specie in una circostanza come questa in cui sembra che Dio si sia dimenticato di noi, mentre nel mondo la pandemia continua a mietere vittime. Maria non si arrende all’idea che Gesù sia scomparso. L’amore che prova per lui le impedisce di rassegnarsi, per cui anche davanti all’evidenza si spinge oltre col suo sguardo di fede, finché è lo stesso Gesù ad appagare la sua inquietudine, rendendosi visibile ai suoi occhi. Più che in altre circostanze si coglie qui il significato del detto di Gesù: A chi mi ama, mi manifesterò (cf. Gv 14, 21). Maria dunque ci insegna a non arrenderci a non scoraggiarci anche quando l’evidenza dice tutto il contrario delle nostre attese. Magari non abbiamo la possibilità di vedere Gesù come Maria, ma certamente abbiamo la possibilità di compiere lo stesso atto di fede compiuto da Pietro e Giovanni, esercitando quella memoria spirituale e storica della vicenda di Gesù e guidati dal suo Spirito profetico, riusciamo e gettare uno sguardo oltre il buio di questa vicenda pandemica e vedere le cose ‘da lassù’, verso le quali siamo orientati.


Buona meditazione e soprattutto Buona Pasqua di Risurrezione, invitandovi a recuperare quella formula originaria con la quale si è diffuso tale annuncio: Cristo è risorto, è veramente risorto!


Luigi Razzano








 
 
 

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