10 Settembre 2023 - Anno A - XXIII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 9 set 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Ez 33,1.7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20
La correzione fraterna

“Se tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo …” (Mt 18,15).
“Figlio dell’uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti; ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia” (Ez 33,7).
“Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge … L’amore non fa male al prossimo” (Rm 13,8.10).
I versetti appena citati costituiscono la sintesi dei brani biblici che la Liturgia della Parola ci propone questa domenica, il cui tema ruota intorno alla correzione fraterna. Si tratta di una pratica antica che risale alla tradizione spirituale ebraica e che Gesù, come attesta il Vangelo di Matteo, ha ereditato e trasmesso anche ai suoi discepoli. Essa costituisce uno strumento fondamentale per chi intende progredire rapidamente nella vita spirituale. La sua funzione, infatti, consiste non tanto nel biasimare l’altro per i suoi peccati, quanto nell’aiutarlo a prenderne coscienza, così da imparare a evitarli. Sottrarsi ad essa o esercitarla in maniera impropria è indice di un atteggiamento spirituale prevaricatorio. Lasciarsi correggere, invece, è segno di umiltà, mitezza e di conformità allo spirito evangelico di Cristo (cf. Mt 11,29).
Ma come correggere? Quali sono le condizioni per esercitare questo strumento? E chi è demandato a farlo? I brani biblici in questione ci offrono alcune importanti indicazioni che possono rivelarsi utili anche per i diversi ambiti educativi e formativi nei quali, ciascuno di noi, si ritrova, in diversi gradi e ruoli, a vivere.
Dalla prima lettura emerge chiaramente che non tutti possono correggere tutti. La correzione spetta solo chi è demandato a farlo, ovvero al responsabile di una comunità o di un percorso educativo e formativo. Nel caso specifico di una comunità religiosa o ecclesiale, tale compito spetta a chi è posto come “sentinella” (Ez 33,7), intesa come suo sorvegliante attento e vigilante. Interessante, a questo proposito, è il caso del profeta Ezechiele. Egli non parla da sé, ma perché inviato da Dio a correggere il suo popolo: “Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia” (Ez 33,7). La correzione, quindi, non nasce da un’iniziativa personale del profeta, ma da Dio. È lui che corregge, ed è interessato a recuperare un membro della comunità, ancora prima e più del profeta. Il suo scopo pertanto non è quello di punire o condannare un peccatore, bensì quello di redimerlo, come afferma Dio stesso attraverso il profeta Ezechiele: “Io non godo della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva” (Ez 33,11; 18,23). E Dio corregge non in nome di una legge, ma in nome dell’amore, per il bene e la promozione della persona. Diversamente, quando la correzione è compiuta solo per motivi giuridici, o peggio ancora, mossa da risentimenti personali, allora tende al giudizio e alla condanna dell’altro.
Il brano, tuttavia, si presta anche a un altro significato: ogni peccatore è responsabile dei propri atti e delle conseguenze che ne derivano, ma della sua condotta morale Dio chiede conto anche ai membri della comunità alla quale egli appartiene. Ciascuno è, in certo qual modo, responsabile non solo di se stesso, ma anche dell’altro. [1] E ciò vale soprattutto per chi è demandato a svolgere questo compito a livello comunitario o pubblico, come nel caso del profeta: “Se io dico all’empio: Empio tu morirai, e tu non parli per distogliere l’empio dalla sua condotta, egli, … morirà per la sua iniquità; ma della sua morte chiederò conto a te” (Ez 33,8). Diversamente “Se tu avrai ammonito l’empio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte, egli morirà per la sua iniquità, tu invece sarai salvo” (Ez 33,9). Se ne deduce allora che la condotta morale, personale o sociale che sia, non è riducibile solo ad un fatto privato, come accade nel nostro contesto culturale, ma è una questione pubblica, che ci vede tutti diversamente coinvolti, anche quando non siamo direttamente responsabili. Ogni atto morale personale è un po’ come una pietra lanciata nell’acqua: genera delle onde che si propagano lontane dal centro, con effetti talvolta imprevedibili o perfino devastanti, come nel caso dello tsunami. Allo stesso modo, ogni atto morale grave, specie quando è compiuto pubblicamente, ha delle ripercussioni sociali e culturali che non possono essere arginate ricorrendo solo alla formulazione di una norma giuridica più severa, ma richiede un vero e proprio cambio di mentalità, un modo nuovo di pensare. Non è possibile, per esempio, risolvere i fenomeni della tossicodipendenza, dell’alcolismo, della ludopatia o quelli più recenti della microcriminalità, dello stupro di gruppo, del femminicidio, con la stessa mentalità che li crea. Occorre un nuovo paradigma culturale, pedagogico e formativo che permetta di rivedere radicalmente la struttura portante dell’attuale sistema relazionale, sociale, politico, finanziario, economico … Esso richiede, in altre parole, una sorta di “correzione fraterna tra le nazioni”, simile a quella prevista per gli anni giubilari, descritti nei libri del Levitico 25, 2-7 e del Deuteronomio 15, 1-3, dove ciascuno viene coinvolto in un condono dei crediti reciproco.
Ma a quali condizioni ciò diventa fattibile? La seconda lettura ci lascia intendere il clima entro il quale deve avvenire la correzione fraterna. San Paolo, rivolgendosi ai Romani, sostiene che non basta osservare la legge per diventare uomini giusti, ma occorre un di più che viene dalla grazia. Questo di più è l’amore: “pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13,10). Pertanto non basta ritenersi uomini giusti per correggere un fratello, ma occorre essere animati dallo stesso atteggiamento misericordioso di Dio. Chi corregge nella carità non fa alcun male al prossimo (cf. Rm 13,10). Si tratta allora di vedere l’altro con lo stesso sguardo compassionevole di Dio. Paolo riprende l’argomento anche in altri contesti epistolari, dove aggiunge che la correzione va fatta con dolcezza e pazienza (cf. Gal 6,1; 1Ts 5,14; 2Tm 2,25). Solo a queste condizioni la correzione si rivela edificante per chi la riceve e diventa motivo di una più intensa e profonda vita spirituale ed ecclesiale. La correzione, dunque, va fatta all’interno di un contesto d’amore reciproco, dove ciascuno sente di amare l’altro come se stesso e quindi di dire all’altro le cose nello stesso modo con cui vorrebbe sentirsele dire. Più che mai vale in queste circostanze la regola d’oro di cui parla Gesù (cf. Mt 7,12). Il clima perciò è quello determinato da Gesù stesso: “dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 5,20). La presenza mistica di Gesù, generata dal dono di sé all’altro, costituisce la luce che permette di riconoscere la verità della situazione morale nella quale si verte e quindi di liberarsi del proprio peccato. L’amore reciproco è la conditiosine qua non per ogni autentica correzione fraterna. È in questo clima che diventa possibile acquisire quella sapienza che consente un sano discernimento, col quale dire al fratello solo ciò che viene da Dio. È Cristo che ci corregge attraverso il fratello e lo fa con la luce della sua sapienza. Egli rende la correzione un fatto personale ed ecclesiale al contempo. La correzione, infatti, è in vista della vita nuova in Cristo e quindi della vita ecclesiale. Per questo quando si corregge una persona, occorre sempre tener come sfondo la Chiesa. È per amore della Chiesa che si interviene nei confronti di un fratello, specie quando questi rischia di compromettere, con la sua condotta, il bene e la vita del corpo mistico di Cristo. E quando la correzione viene compiuta nella luce dell’amore fraterno allora genera libertà. La libertà è segno di una correzione autenticamente compiuta.
È in questo orizzonte ecclesiale che si comprendono le indicazioni del brano evangelico, stando alle quali si capisce che la correzione non sempre può essere risolta all’interno di un clima interpersonale pacifico: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo” (Mt 18,15), ma può esigere anche la presenza di alcuni testimoni che facciano da garanti sull’autenticità della testimonianza: “se non ti ascolterà prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni” (Mt 18,16); o addirittura ricorrere all’intervento della comunità: “se non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea” (Mt 18,17). Correggere, dunque, non è affatto una pratica semplice, ma può dare origine anche a una situazione complessa e grave. Provocare sentimenti negativi, radicare pregiudizi e rancori, difficili da estirpare. Può accedere, infatti, che nonostante questi progressivi interventi il fratello perseveri nelle sue decisioni, in tal caso “sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,17), cioè sia escluso dalla comunità. Si tratta di situazioni estreme, ma non rare, e quando accadono si rivelano spesso lesive non solo per il singolo, ma per l’intera comunità ecclesiale, specie quando sono condizionate da stati morali incresciosi e questioni dottrinali delicate e spinose. In ogni caso questa decisione non deve mai diventare una forma di disprezzo e ancor meno di giudizio, poiché, come afferma san Paolo, “Tutti ci presenteremo al tribunale di Dio … Quindi ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso” (Rm 14,10.12). lo stesso Gesù afferma che “con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,38). L’intenzione di fondo, dunque, deve essere sempre quella di tentare ogni cosa per salvare la persona. Sentenziare nei confronti di qualcuno comporta, infatti, una grave responsabilità: dalle sue decisioni dipende la sorte del fratello. Lo si capisce dalle parole che Gesù rivolge a coloro che sono demandati a questo compito: “tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt 18,18).
In conclusione la correzione è uno strumento spirituale assai delicato, ma anche pericoloso. Quando viene esercitato fuori dall’amore rischia di trasformarsi in uno strumento di giudizio e di condanna. È importante perciò acquisirne la corretta metodologia. Correggere è un’arte: l’arte d’amare. E come ogni arte richiede sapienza. Il criterio primo rimane, perciò, sempre quello evangelico: la salvaguardia della persona. La sua salvezza viene prima di ogni cosa, anche della verità e della giustizia. Consapevoli che nessuna salvezza cristiana è esente di verità e giustizia. Correggere, dunque, è una forma d’amore che va esercitata al fine di “guadagnare il fratello” (Mt 18, 15) alla vita del Regno di Dio. Ciò significa mettere l’altro nella condizione di progredire nei vari ambiti della vita umana ed ecclesiale. Essa va praticata nelle circostanze in cui un fratello “commette una colpa”, tale da esporre se stesso al pericolo di perdersi o ledere il bene della comunità ecclesiale. Correggere, allora, è come potare, ovvero incidere in modo determinante sulla pianta. Non si tolgono rami a caso. Da questa operazione dipende il futuro della pianta e dei suoi frutti. E come la potatura anche la correzione fraterna è un dovere, per la crescita spirituale di una persona e di una comunità. Il che significa che chi la esercita non deve agire arbitrariamente, ma conformemente alla volontà di Dio. È a queste condizioni che si creano i presupposti per essere esauditi dal Padre: “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà” (Mt 18, 19).
[1] Nel Libro della Genesi questa responsabilità emerge chiaramente dalla domanda che Dio pone a Caino, a seguito del suo atto violento e criminoso: “Dov’è Abele tuo fratello?”, alla quale però Caino si sottrae rispondendo: “Sono forse il guardiano di mio fratello?” (Gen 4,9).




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