10/05/2020 - 5a Domenica di Pasqua - Anno A
- don luigi
- 10 mag 2020
- Tempo di lettura: 6 min
At 6, 1-7; Sal 32; Pt 2, 4-9; Gv 14, 1-12
“Vado a prepararvi un posto”
Cari amici ed amiche, nella quinta domenica di Pasqua la Chiesa ci propone brani biblici particolarmente ricchi di spunti riflessivi. Naturalmente non abbiamo la possibilità di sviscerarli tutti, prenderemo in considerazione solo quelli che maggiormente si prestano a gettare un fascio di luce sulla peculiare situazione storica che stiamo vivendo. Magari lasciandoci guidare da un tema, come quello espresso nel titolo del nostro commento: “Vado a prepararvi un posto”.
Prima di introdurci in esso vorrei però invitarvi a compiere due semplici operazioni metodologiche che dovrebbero sempre precedere, accompagnare e concludere la nostra meditazione sulla Parola di Dio, per evitare che essa si riduca a una vaga riflessione razionale. La prima consiste nel collocare la Parola di Dio nel particolare contesto in cui ha avuto origine e nel quale ora la leggiamo, che può essere liturgico, storico, sociale, personale o ecclesiale, accompagnata da alcune domande: cosa ha voluto esprimere l’autore con questo brano? Perché la Chiesa me lo propone, oggi? Qual è il messaggio che intende comunicarmi? Quale scelta Dio mi invita a compiere a livello personale, ecclesiale e sociale? Vi accorgerete che uno stesso brano biblico, collocato in un contesto diverso, dischiude significati nuovi e inimmaginabili che possono diventare chiavi di lettura per comprendere il senso della nostra storia.
La seconda operazione invece consiste proprio nel darsi un tema. Essa ci evita il rischio della dispersione. Questa operazione è tanto più efficace, quanto più il tema si fa interprete delle nostre istanze più profonde. Vado a prepararvi un posto, per esempio, potrebbe aiutarci a prendere coscienza di alcuni limiti che caratterizzano il nostro modo di vivere la fede, ma che condizionati dalla cultura non riusciamo a rilevare. Il tema infatti fa luce su un aspetto di cui oggi facciamo tanta fatica a parlare: la vita eterna. Pur professando la fede nella risurrezione ci ritroviamo a vivere completamente presi dalle cose di quaggiù, come direbbe san Paolo (cf. Col 3, 1), con una logica di vita che non è affatto quella evangelica. Ci riesce difficile immaginare la vita eterna e ancora più parlarne in modo credibile e convincente, forse perché ci crediamo poco o forse perché respiriamo e condividiamo una mentalità individualista, dove tutti vivono ripiegatati su se stessi. Da qui la difficoltà a gettare uno sguardo oltre la vita empirica, per vederla dall’Altro, dal punto di vista del Risorto. Commentarla quindi potrebbe aiutarci a riconsiderarla, specie in questo momento così critico della nostra vita.
Nello specifico, il nostro tema tratta di una promessa che Gesù fa in modo chiaro e inequivocabile. Per cogliere appieno il senso di questa promessa è opportuno collocarla nel contesto del Discorso di Addio che Gesù rivolge ai suoi discepoli durante l’Ultima Cena, poco prima di morire. Si tratta di un Discorso al quale abbiamo fatto riferimento già durante la Quaresima e che ora rileggiamo alla luce dell’esperienza pasquale, come preparazione alla Pentecoste. Infatti è proprio durante questo discorso che Gesù promette lo Spirito Santo ai suoi discepoli, come vedremo nelle prossime domeniche. Questa rinnovata prospettiva pasquale ci permette di cogliere più in profondità le parole di Gesù, ma ci impegna anche ad una partecipazione più intima e profonda di lui. L’invito che vi rivolgo dunque è quello ad entrare nell’animo di Gesù, per cogliere i sentimenti che lo hanno attraversato in questo momento così decisivo della sua vita; ma anche in quello degli apostoli, per i quali la partenza di Gesù apre in loro angoscianti interrogativi sul futuro del discepolato. Lo scopo di questa intima partecipazione all’anima di Gesù e a quella degli Apostoli può aiutarci a fondare le ragioni della nostra speranza nella vita eterna.
Come si fa a partecipare degli stessi sentimenti di Gesù? La risposta ci permette di ripercorrere il cammino tracciato da Giovanni, in questo brano. “Non sia turbato il vostro cuore”. È l’esortazione che Gesù fa ai suoi discepoli a causa del sconforto che essi provano dinanzi all’imminenza della sua morte. Cos’è il turbamento? È un sentimento che si prova quando ci sentiamo minacciati da un pericolo. La Bibbia ci racconta di diverse persone attraversate da questo sentimento. Per esempio Mosè, quando insieme al suo popolo, prima del passaggio del Mar Rosso, si ritrova stretto in una morsa dalla quale non riesce ad uscire: da una parte il mare, che ostruisce il suo cammino e dall’altra gli Egiziani che pressano alle spalle. O ancora Giosuè dopo la morte di Mosé (cf. Dt 31,6.8; cf. Gs 1,1-9), quando Dio gli chiede di assumersi la responsabilità di guidare il popolo verso la terra promessa, mentre lui si sente ancora impreparato a tale compito. Anche Gesù ha provato questo sentimento in occasione della morte di Lazzaro (Gv 11, 33), del bacio di Giuda (Gv 13, 21), dinanzi al pericolo della sua morte (Gv 12, 27).
Come comportarsi quando ci sentiamo turbati? Osserviamo Gesù. Egli propone come antitoto la fede nel Padre e in lui: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14, 1). Una vera e propria terapia spirituale contro la tentazione della paura che può giungere perfino a schiacciarci e bloccarci. Così mentre essa induce a chiuderci in noi o ad appellarci solo alle nostre capacità, Gesù ci invita a porre tutta la nostra fiducia in Dio. Esattamente come fa un bambino quando dinanzi ad un pericolo sa di poter confidare solo nel padre. Fidarsi significa dunque smettere di pensare di farcela da soli e confidare solo nell’intervento di Dio. Questo totale affidamento costituisce la prima e fondamentale condizione della fede.
Ma c’è un altro sentimento, molto più sottile e subdolo, che ci impedisce di fidarci fino in fondo. Esso è particolarmente presente nella nostra cultura occidentale: il nichilismo. Si tratta di un sentimento presente in tutti: credenti e non credenti. Esso ci fa credere che malgrado i nostri sforzi tutto, prima o poi, verrà vanificato dal nulla. Anche Qoelet è attraversato da questo terribile dubbio, quando dice che “Tutto è vanità” (Qo 1, 2). Viene da chiedersi allora, anche la nostra fede è vana? Se così è, a che pro’ impegnarsi così tanto se poi tutto è destinato al nulla? Da qui la rassicurazione di Gesù: “non sia turbato il vostro cuore … io vado a prepararvi un posto”.
Ma cos’è questo “posto” di cui parla Gesù? Soprattutto, qual è la via per raggiungerlo? Ecco le due grandi domande che ci invitano a dare ragione della nostra fede. Ci consola quando vediamo che la nostra difficoltà nel rispondere ad esse è stata anche la difficoltà degli apostoli, come attesta la domanda di Tommaso: “Signore non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. La risposta di Gesù è inequivocabile: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Ecco anche la grande sfida che egli lancia ai discepoli e alle persone di ogni epoca e cultura. “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4, 12). Egli è - come dice Simeone – “La rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2, 34-35); o come aggiunge san Pietro, citando il salmo 118: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo” (1Pt 2, 7-8).
Ma proviamo ora a commentare le parole di Gesù. “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”. La vita eterna consiste allora nell’essere presi da Gesù e condotti da lui nel seno del Padre. È lui a portarci al Padre. Gesù, infatti, come fa osservare S. Fausti, non dice “nessuno va al Padre”, ma “nessuno viene al Padre”. La via è stare con lui, la vita è vivere con lui nel Padre. Tale vita non consiste nel vivere l’uno accanto all’altro, ma l’uno nell’altro. Ecco l’unità divino-umana alla quale siamo chiamati. Con la sua risurrezione Gesù inaugura una nuova forma di esistenza e una nuova forma di relazione: non più “Gesù con loro”, ma “Cristo in loro”. È la stessa relazione della comunione trinitaria, dove le persone si compenetrano l’una nell’altra. Teologicamente questa relazione viene qualificata in termini di perikoresi, dove l’io di una persona non vive più in sé, ma nell’altro. L’io di Gesù è nel Padre e quello del Padre è in lui. In altre parole la mutua relazione che Gesù vive da sempre col Padre, a partire dalla risurrezione e più precisamente con la Pentecoste, viene estesa anche ai discepoli. Gesù innesta nella relazione interpersonale il modo d’esistere eterno: Io vivo in te e tu in me. Non si tratta di un vivere con, ma di un vivere in.
Questa è la relazione che noi siamo chiamati a realizzare a livello ecclesiale se vogliamo essere autentici e credibile testimoni della sua promessa. Una testimonianza che non si riduce a quella verbale, ma è comprovata dalle opere, esattamente come fa Gesù. Pertanto l’opera che più ogni altra attesta la vita eterna è la comunione con lui. È questo stile di vita che fa vedere la presenza mistica di Gesù nell’oggi della nostra vita ecclesiale. Solo così potremo ripetere con lui: chi vede noi, vede Cristo e chi vede Cristo vede il Padre. Ecco la verità che oggi più che mai siamo chiamati a testimoniare come singoli e come Chiesa. Specie in questo forte momento di crisi esistenziale che stiamo attraversando.




Commenti