10/04/2020 - Passione Domini Venerdì Santo - Anno A
- don luigi
- 10 apr 2020
- Tempo di lettura: 10 min
Is 52,13-53,12; Sal 30/31; Eb 4, 14-16; 5, 6-9; Gv 18, 1-19,42
Cari amici ed amiche, ancora una volta più che un commento omiletico, vorrei offrirvi una riflessione sul senso della Passio Cristi, alla quale la nostra tradizione religiosa, specie in questo giorno di Venerdì Santo, presta tanta attenzione. Ve la offro così come essa si è andata dischiudendo dentro di me, nella speranza che contribuisca a ingenerare quel processo di cambiamento interiore che lo Spirito di Dio va suggerendo a tanti, nell’oggi della fede, secondo la logica del granello di senape (cf. Mc 4, 30-32) e del chicco di grano (cf. Gv 12, 24), che vi invito a meditare con attenzione in questi giorni che ci separano dalla Pasqua.
Questa mattina non era ancora l’alba, quando mi sono rimesso a leggere la Passione e Morte di Gesù in tutti e quattro Vangeli (cf. Mt 26-27; cf. Mc 14-15; cf. Lc 22-23; cf. Gv 18-19[1]), nel tentativo di mettere a fuoco il nucleo del mistero della salvezza, così come viene espresso dalla fede cristiana; lasciandomi guidare da alcune domande, che provo a formulare in questi termini: come mai gli evangelisti dedicano così tanta attenzione a episodi particolare della vita di Gesù, e precisamente quelli degli ultimi due giorni della sua esistenza terrena, mentre descrivono come estrema sobrietà i restanti tre anni della sua vita? Cosa hanno colto di così importante, in questi ultimi avvenimenti, da soffermarsi a descriverli con tanta dovizia di particolari, talvolta perfino risvolti psicologici, inconsueti allo stile sobrio dei Vangeli? A dire il vero sarebbe importante rileggere la Passione di Cristo alla luce anche dei quattro carmi del profeta Isaia (cf. 42, 1-4; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-53, 12), dai quali emerge la figura di un messia che in molti tratti si identifica nella sorte toccata a Gesù. Dalla lettura di questi carmi infatti sono emerse anche altre domande: perché tanto accanimento feroce nei confronti di questo uomo? Perché questa concentrazione di crudele e inaudita violenza, su un uomo ridotto ad un obbrobrio inguardabile; così sfigurato in volto e nel corpo, da non poter essere considerato neppure più uomo (cf. Is 52, 13-53,12)[2]. Perché la sua Passione e Morte sono così determinante ai fini della fede e della salvezza degli uomini? Da qui sono scaturite anche altre domande, alquanto profonde, che vi comunico nella speranza, non tanto di strapparvi un consenso, ma nel tentativo di sviluppare questa mia riflessione insieme a voi: cosa ha detto o cosa ha fatto di così inaudito da meritarsi una simile condanna? Come mai due processi: religioso e civile, sia pure sommari e sbrigativi – o forse proprio per questo – non sono riusciti a risolvere in modo pacifico l’accusa nei suoi confronti? Davvero Gesù è quello che dice di essere: Dio? Lui dice che ha fatto tutto ciò per salvarci, ma in cosa consiste la salvezza? Cosa realmente ci salva? Qual è l’atto che determina in noi il passaggio dalla morte alla vita? dalla schiavitù del peccato alla salvezza? A queste domande e ne sono aggiunte anche altre, dal risvolto più sociale e culturale, del tipo: come mai un simile evento, al quale la tradizione religiosa e per certi versi, perfino quella culturale, riconosce e attribuisce tanta importanza, risulta poi così determinante per alcuni, mentre rimane del tutto indifferente per altri? E’ davvero così decisiva questa esperienza a livello esistenziale? Da dove nasce allora questo diverso atteggiamento nei suoi confronti? Coloro che ne stimano l’importanza non rischiano un abbaglio spirituale e intellettuale? E coloro che invece la snobbano non rischiano di ridurre la loro esistenza a questioni puramente marginali? Come mai alcuni vivono del tutto appagati della propria conoscenza intellettuale, razionale, scientifica, culturale, psicologica, insomma di quel benessere che consente loro di risultare apparentemente sereni e tranquilli, mentre altri si lasciano interpellare dalle sue domande di senso, da giungere perfino a mettere in discussione la propria visione di vita?
Leggendo questi capitoli è scaturito un confronto tra l’approccio tradizionale alla Passio e quello attuale più esigente e sensibile ad alcune questioni esistenziale. Mi sono accorto infatti che il modo con cui spesso ci approcciamo alla Passio Cristi è certamente dettato da uno spirito religioso, ma molto spesso viziato da uno spiritualismo che induce a soffermare l’attenzione su aspetti alquanto marginali del percorso doloroso di Cristo, come evidenziano anche alcune ‘stazioni’ della via crucis tradizionale, animate certamente da uno spirito serio, onesto, ma anche molto spesso emotivo, intimistico e devozionistico - che poco ha che fare con la fede cristiana matura - facendo passare invece in secondo piano episodi che risultano di fondamentale importanza, per cogliere la ragione che ha indotto un uomo come lui a spingersi così oltre nell’esperienza dell’amore verso il prossimo. Provo a spiegarmi ulteriormente con qualche esempio: se noi osserviamo il percorso della via dolorosa, così come viene espresso dalle immagini e libricini delle nostre vie crucis tradizionali, prendiamo atto che esse sono arricchite di episodi, come le ‘cadute’[3], che ci fanno cogliere certamente l’intima partecipazione spirituale di chi li ha scritti, ma di cui i Vangeli non fanno nessunissima menzione. Al contrario i versetti che la descrivono sono estremamente sobri e concisi.
Di contro a questo approccio ve n’è un altro, meno diffuso, ma abbastanza influente. Mi riferisco a quello intellettuale, relativo a coloro che si accontentano del loro sapere teologico, ma diventano impermeabili ad esperienze autentiche di amore evangelico. Simili approcci sono destinati a durare solo per il tempo che trovano.
Da qui una deduzione che ritengo fondamentale per la nostra maturità spirituale: non è forse venuto il momento in cui è opportuno liberare la nostra fede di questi estremismi intellettuali e intimistici, che non rispondono più all’istanza di maturità spirituale, religiosa ed esistenziale della gente dei nostri tempi? Si tratta allora di acquisire un approccio serio e onesto al Vangelo, sia sotto il profilo religioso che quello spirituale e intellettuale. Un approccio che ci metta nella condizione di cogliere il nucleo vitale del Vangelo, il suo messaggio così carico di speranza da determinare vere e proprie svolte esistenziali nelle persone, e soprattutto la ragione che ne giustifica la sua perenne attualità, malgrado i progressi scientifici, tecnologici, sociologici, psicologici che l’umanità ha raggiunto in questi ultimi secoli. Quello che stiamo vivendo è certamente un passaggio epocale di fondamentale importanza per la nostra vita religiosa, spirituale, esistenziale e sociale. Un passaggio che sta determinando un autentico crollo di tutto ciò che è superfluo e lasciando emergere invece ciò che realmente ed essenzialmente vero e autentico, per il futuro della nostra vita.
Nel rispondere a queste domande sono stato guidato esclusivamente da due desideri: chiarire a me stesso il nucleo e le ragioni della fede cristiana e comunicarle a voi con la stessa chiarezza con cui lo Spirito me le ha fatto comprendere. Francamente non so se riuscirò a rispondere a tutte queste domande, ma spero almeno di riuscire a farvi mettere a fuoco il nucleo della questione, nella speranza che esso diventi la base per una possibile interazione con voi. Non è possibile infatti analizzare sotto l’aspetto teologico una mole così impressionante di domande, ma almeno cerchiamo di rendere chiaro quell’esperienza che ci consente di dare ragione della nostra fede a chiunque ce ne chiede conto (cf. 1Pt 3, 15). In questo senso mi piacerebbe se ciascuno, lasciandosi interpellare da questa riflessione, potesse dirmi la propria considerazione. Perciò non esitate a raccontarmi di voi.
Veniamo allora al dunque. Gesù è stato dichiarato colpevole per essersi fatto Dio, mentre a giudizio dei suoi accusatori, stando all’evidenza della sua vita quotidiana, dimostrava di essere semplicemente un uomo come tutti gli altri: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei un uomo, ti fai Dio” (Gv 10, 33). La domanda sulla sua identità viene posta, in maniera inequivocabile, dal sommo sacerdote, direttamente a Gesù: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?” e Gesù risponde in maniera altrettanto inequivocabile: “Io lo sono” (Mc 14, 61-62)[4]. Da questa affermazione scaturisce la condanna da parte del sinedrio: “Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: ‘Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?’ Tutti sentenziarono che era reo di morte” (Mc 15, 63-64). Da dove nasce questa affermazione di Gesù: dall’arrogante pretesa di un uomo che cercava a tutti i costi la gloria personale? O dalla manifestazione di una reale identità divina? Dinanzi ai Giudei che volevano lapidarlo per queste sue affermazioni, Gesù a sua discolpa disse: “Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dei? Ora se essa ha chiamato dei coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio (e la Scrittura non può essere annullata), a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo, voi dite: Tu bestemmi, perché ho detto: Sono figlio di Dio? Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi: ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre” (Gv 11, 34-38). Gesù fonda la testimonianza della propria identità non sulle parole, che potrebbero anche rivelarsi pretenziose, ma sulle opere, quale segno della presenza inequivocabile dell’azione di Dio in lui. A giudizio di Gesù simili opere non possono che testimoniare l’intima comunione e l’inscindibile unità divina che egli intesseva col Padre.
Questa coscienza che Gesù manifesta della sua identità divina, fondata sulla comunione col Padre, è di fondamentale importanza per tutta l’opera che ne scaturisce e quindi della passione e morte a cui lui va incontro, nella speciale convinzione di portare a termine l’opera principale del Padre: ovvero la salvezza dell’uomo. Cosa rende credibile la testimonianza di Gesù, se non la l’intima convinzione di giungere perfino a dare la propria vita. E’ questo il nucleo che i gli evangelisti hanno cercato di sviluppare con i loro racconti. Pertanto se c’è una ragione che li induce ad essere così attenti nel raccontare la passione e la morte, questa sta nel voler sviscerare il segreto dell’amore del Padre, testimoniato da Gesù. L’esperienza salvifica, dunque, non consiste nell’offrire sacrifici, ma nel lasciarsi amare dal Padre. L’amore che ci salva non è quello che noi offriamo al Signore con i nostri doni, bensì quello che il Padre ci dona gratuitamente in Gesù. Il principio dell’amore non è in noi, nella nostra volontà, nel nostro desiderio di giungere a santificarci, ma in Dio che riversa con eccedenza, gratuita e libera, tutta la sua riserva d’amore su di noi. Giovanni esprime tutto questo quando afferma: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione dei nostri peccati” (1Gv 4, 10). Pertanto “noi passiamo dalla morte alla vita amando il fratello” (1Gv 3, 14). L’amore che si rivela decisivo per la nostra salvezza è quello accolto con la stessa gratuità e libertà con cui lui ce lo dona. Esso è ciò che determina il reale cambiamento della nostra condizione umana: da peccatori a santi, ovvero partecipi della vita d’amore del Padre. Il che significa che chi partecipa e sperimenta nella propria vita questo amore, così come viene comunicato da Gesù, si salva. La salvezza pertanto non sta nel nostro impegno religioso e rigore morale, ma nella reale partecipazione personale dell’amore del Padre in Gesù. E Cristo non ha altro luogo in cui salvarci se non quello della storia quotidiana della nostra vita, ovvero nella carne, nella fisicità del corpo biologico. Non a caso questa esperienza d’amore s’origina proprio a partire dalla sua incarnazione. Il che significa che è partendo dalla sua partecipazione solidale alla nostra condizione di peccato che egli ci salva. Dunque la salvezza cristianamente intesa non consiste nella pratica minuziosa e integerrima delle norme religiose e morali, o nel seguire itinerari psicologici e mentali tesi alla padronanza di sé, come accade in molte religioni orientali, ma nel lasciare che Dio sia libero di essere Dio in noi, ovvero amante. È in noi che tale evento accade, è per noi che si origina, da noi s’irraggia verso gli altri.
In altre parole Cristo incarnandosi ha redento la nostra carne dall’interno, ovvero dalla condizione più disonorevole della nostra natura umana: il peccato. Il peccato che costituiva la massima distanza da Dio, in virtù del dono di sé, Cristo lo ha radicalmente trasfigurato in amore.
L’ adorazione della croce che facciamo in questo giorno, pertanto, non dice affatto la devozione ad un simulacro, per altro ignominioso, compiuto talvolta più a livello scaramantico che non a livello spirituale, ma la nostra reale adesione a quella logica d’amore che si attua nel dono di sé a favore dell’altro. È questo riconoscimento, fatto col totale assenso di fede, che ci porta alla purificazione di quella mentalità possessiva, prevaricatrice, dualista, con cui facciamo le nostre scelte di vita. Adorare la croce allora significa riconoscere in essa la via che Dio attraverso Gesù ha percorso per giungere al nucleo della nostra identità di peccato e quella che anche noi ripercorrendola a ritroso, secondo le condizioni evangeliche di Gesù, ci permette di giungere alla salvezza. Questa offerta di sé che Cristo compie nei nostri confronti si rivela determinante per l’accesso alla salvezza: infatti al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori, offrendolo in sacrificio di riparazione (cf. Is 53, 10). In questa prospettiva l’esperienza della Pasqua, ovvero della vita nuova in Cristo, consiste consegnare a Dio la nostra umanità, affinché lui la ricrei dall’interno con la potenza del suo Spirito vivificante. Un’operazione questa che, considerando le debite differenze, potremmo spiegare con quel processo che avviene a livello di ingegneria bioetica, con le cellule staminali, quando cioè il nucleo di una cellula malata viene sostituito con quella sana, consentendo alla cellula di rigenerarsi dall’interno. Nel nostro caso è lo Spirito che Dio inserisce, attraverso l’incarnazione di Cristo, nel nucleo delle nostre cellule spirituali malate fino a trasfigurarle dall’interno. A livello pratico questa operazione, sia pure nell’assoluta gratuità di Dio, avviene a condizione che noi ci rivolgiamo a Dio con le stesse modalità con Cristo invocò il suo aiuto: “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberalo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 6, 7-9). Il che significa che la nostra partecipazione al suo amore comporta la costante scarnificare di noi in tutte quelle circostanza in cui la vita ci presenta situazioni dove siamo chiamati a dire e ripetere il nostro sì a lui. Questa dunque la ragione che motiva la nostra speranza in circostanze simili: fondare sulla testimonianza dell’amore di Cristo la nostra perseveranza.
Chiediamo al Signore la grazia di accedere al segreto di questa esperienza d’amore fondativa e partecipare al dinamismo trinitario del suo amore, a partire dal quale si sprigiona anche da noi quella stessa potenza spirituale che irraggiandosi può determinare una vera epifania dello Spirito.
Luigi Razzano
[1] L’evangelista Giovanni in realtà include in questo racconto anche il preludio alla Pasqua compreso tra i capitoli 11, 53-17. [2] A questo proposito si rivela molto interessante il capitolo 2 del libro della Sapienza, che vi invito a leggere, soffermandovi in modo particolare sui vv. 10-24. Ma c’è anche un altro passo evangelico che ci può offrire un’ulteriore chiave interpretativa ed è Mc 15, 10, dove si dice che Pilato: “Sapeva che i sommi glielo avevano consegnato per invidia”. [3] Simili stazioni nascono da un’interpretazione del passo di Is 53, 4-6. [4] In Matteo la domanda del sommo sacerdote appare meno diretta, ma altrettanto esplicita: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. Gesù indirettamente risponde, senza tuttavia lasciare equivoci: “Tu lo hai detto” (Mt 26, 63-64). La domanda viene posta anche da Pilato, ma sotto l’aspetto politico e regale, al quale evidentemente non interessavano minimamente le questioni religiose: “Sei tu il re dei Giudei?” Anche in questo caso Gesù risponde indirettamente ”Tu lo dici” (Mt 27, 11), come a voler lasciare lo spazio di libertà della fede.




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