1 Settembre 2024 - Anno B - XXII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 31 ago 2024
- Tempo di lettura: 7 min
Dt 4,1-2.6-8; Sal 14; Gc 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23
La religione pura

Dopo il prolungato discorso di Gesù sul “pane di vita eterna” che ci ha visto impegnati a commentare estesamente il capitolo 6° di Giovanni – durante il quale abbiamo avuto modo di mettere a fuoco il fondamento della nostra fede nell’Eucaristia – riprendiamo il Vangelo di Marco, con un aspetto che costituisce spesso un motivo di polemica tra Gesù e i farisei. L’apostolo Giacomo, nella sua lettera, lo definisce in termini di: “religione pura e senza macchia davanti a Dio” (cf. Gc 1,27).
Noi cogliamo l’occasione per fare luce sulla ‘dimensione religiosa’ della vita, dal momento che, oggi, essa non gode di molta considerazione sociale, specie a partire da quell’interpretazione illuminista che l’ha posta progressivamente ai margini di ogni interesse culturale, rivestendola di quei pregiudizi che stentano ancora ad essere sfatati. In realtà essa è a fondamento dell’esistenza umana e per questo noi proveremo a offrirne un’adeguata considerazione. Ancora più che in altre epoche storiche si avverte, infatti, l’esigenza di metterne a fuoco il significato, svincolandolo da quella mentalità culturale che tende a contrastarlo con la ragione e la scienza, comunemente considerate come luoghi e condizioni per giungere alla conoscenza della verità certa e inconfutabile. Paradossalmente invece, nel corso della storia, è stata proprio la religione a costituire l’ambito in cui l’uomo poteva entrare in relazione con la Verità. Cosa ha generato questo paradosso da sovvertirne i ruoli in modo così radicale? Come mai la religione sembra aver perso tutta la sua credibilità? Ci lasceremo guidare nella nostra riflessione da queste e da altre domande simili, alle quali cercheremo, per quanto è possibile, di rispondere in modo semplice e conciso, sulla base dei brani biblici che la liturgia ci propone, per quest’oggi. Cos’è la religione? Qual è il suo scopo? Che rapporto ha col senso dell’esistenza umana? Se è così importante come mai, oggi, è poco considerata? Perché essa è spesso motivo di polemica tra Gesù e i farisei?
Sotto l’spetto lessicale il termine “religione” si riferisce a quella dimensione con la quale l’uomo, trascendendo la vita terrena e biologica, entra in relazione col Sacro. Etimologicamente “religione” deriva, infatti, dal latino religare che significa “legare”. Questo termine sta a indicare perciò tutto quel sistema di valori, legami, riti, precetti, norme morali e dottrinali, attraverso i quali l’uomo ha modo di stabilire un rapporto col Divino, ritenuto alle origini della propria esistenza. Per queste ragioni la dimensione religiosa è stata da sempre considerata come un luogo dove l’uomo ha la possibilità di cogliere il Principio che dà senso e fondamento alla propria esistenza. Un Principio che lungi dall’essere considerato come una conoscenza primitiva, arcaica e antiquata, si rivela sempre di estrema attualità, tutte le volte che l’uomo avverte l’esigenza di pervenire alla verità di sé e della realtà che lo circonda. La sua conoscenza non contrasta affatto col processo razionale e scientifico, come si è soliti pensare attualmente, al contrario religione, ragione e scienza, lungi dal contraddirsi o ostacolarsi a vicenda, contribuiscono a delineare l’alveo originario ed esistenziale entro cui cogliere e verificare il senso della vita umana. Le difficoltà nascono quando ciascuna viene assolutizzata e considerata come criterio esclusivo della verità. Ognuna, invece, ha una funzione specifica che non può essere elusa. Mentre il compito della ragione è quello di verificare la conoscenza della verità, lo scopo della religione è quello di creare e garantire i presupposti e le condizioni che consentono all’uomo di entrare in contatto personale con Dio. Per questa ragione la religione costituisce il luogo per eccellenza nel quale l’uomo ha modo di stringere una relazione personale con Dio, considerato come il termine di confronto che consente di vivere appieno la propria identità e rendere autentica la propria esistenza. Quando ciò non accade, a causa della presunzione dell’uomo, allora egli espone la propria vita all’ipocrisia, con la quale, pur continuando a fregiarsi della relazione con Dio e dei relativi precetti morali e dottrinali, organizza un ‘sistema religioso’ che non corrisponde più a quello originario e divino. In questa prospettiva egli trasforma la religione in una serie di norme e regole che provengono più dalla tradizione culturale che non dalla relazione con Dio. Norme e regole alle quali egli conferisce un valore giuridico, avallato da una presunta origine divina, e perciò considerate vincolanti e obbliganti, al punto che la loro trasgressione prevede una inevitabile pena. Questa evidente riduzione della religione costituisce la causa principale della polemica tra Gesù e i farisei, i quali con la loro osservanza meticolosa e giuridica della Legge finivano spesso col smarrirne l’essenza originaria, trasformando così la sua osservanza in una pura esteriorità, in pieno contrasto con quel processo di conversione del cuore e della mente, che costituiva lo scopo principale della Legge.
Letteralmente “ipocrisia” significa fingere, recitare, simulare un atteggiamento che non corrisponde alla verità di sé. Il termine deriva dal greco ypo ‘sotto’ e krinein ‘spiegare’. Nell’antica Grecia con tale termine veniva designato l’attore che camuffava la propria identità durante la recitazione. Per questo motivo esso generava non poche difficoltà, specie quando il termine veniva esteso anche agli atteggiamenti della vita quotidiana. Anche oggi, esso viene diffusamente praticato, da dare adito ad una vera e propria mentalità, se non addirittura ad una ‘cultura ipocrita’, che induce molte persone ad ostentare un’identità molto diversa da quella reale. Pensiamo per esempio ai profili con cui molti ragazzi, e non solo, sono soliti presentarsi sui social. Questo è solo un sintomo per capire che la nostra è una mentalità culturale che ha svuotato la vita della sua dimensione religiosa e trascendente, a favore della pura esteriorità. E ciò lo si evince dalla fatica che molti, anche credenti, fanno nell’essere giusti, onesti, veri e autentici nei vari ambiti della vita umana. Non basta nascondersi dietro una norma morale o praticare un precetto religioso e neppure fregiarsi di un titolo ecclesiastico, per essere persone di fede, e più specificamente cristiani, occorre conformare la propria mentalità a quella di Cristo e la propria vita a quella del suo vangelo. Diversamente si mette a rischio la credibilità della testimonianza cristiana. E da ciò ciascuno deve imparare a guardarsi in modo responsabile.
La religione costituisce allora l’alveo esistenziale entro cui il credente ha modo di stabilire un rapporto di fede con Dio. Senza la religione, ovvero la dimensione trascendente della vita, la fede rischia di essere ridotta ad un credo politico, ideologico, terreno. Diversamente la religione senza la fede si riduce ad un sistema di precetti che rischiano di asservire l’uomo anziché liberarlo. La religione rende possibile allora quella percezione del Divino che necessita poi di essere conosciuto attraverso un’esperienza di fede personale. Solo a partire da questa fondamentale esperienza di relazione personale con Dio è possibile dare origine a quel processo di conversione che necessita di manifestarsi in uno stile di vita concreto e adeguato. Da qui la particolare attenzione che viene riservata alla Parola di Dio, quale luogo privilegiato per conoscere la sua volontà. Accoglierla con docilità (cf. Gc1,21), senza nulla aggiungere e nulla togliere (cf. Dt 4,2) e praticarla nel vissuto quotidiano significa aprirsi alla salvezza (cf. Gc 1,21). È fondamentale perciò metterla in pratica e non limitarsi alla sola comprensione intellettiva. Gesù più volte e in diverse forme ribadisce che “Non chiunque dice: Signore, signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Senza un adeguato risvolto morale, ovvero un comportamento conforme allo stile di vita evangelico, la semplice comprensione intellettiva rischia di generare solo illusioni e inganni (cf. Gc 1,22). Praticarla invece è indice di libertà (cf. Gc 1,25). Per l’apostolo Giacomo la “religione pura e senza macchia”, consiste nel “visitare gli orfani e le vedove” nelle varie forme di “sofferenze” che la vita quotidiana comporta, “senza lasciarsi influenzare dalla mentalità del mondo” (cf. 1,27).
Nello specifico della polemica con i farisei[1] l’ipocrisia si manifesta nella forma del culto esteriore della Legge mosaica. Gesù la rileva sulla base di una domanda che gli viene posta direttamente da loro: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono il cibo con mani immonde?” (Mc 7, 5). Lavarsi le mani prima dei pasti non è certo una pratica ipocrita, al contrario viene raccomandata da tutti i popoli, di ogni cultura e civiltà, come una delle norme principali dell’igiene. La questione nasce quando i farisei identificavano questa pratica culturale con un precetto mosaico della legge, la cui osservanza veniva proposta con una tale meticolosità e scrupolosità da ritenere superflui i precetti essenziale e fondamentali della legge, come: la giustizia sociale e personale, l’accoglienza del forestiero, il rispetto e la fedeltà coniugale … Gesù smaschera la loro ipocrisia con le parole di Isaia: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini ... E diceva loro: siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione” (Mc 7,6-7.9).
Lo scopo originario e fondamentale della Legge, al quale Gesù richiama l’attenzione, non è quello di asservire l’uomo riducendolo ad uno schiavo, ma garantire attraverso di essa l’esercizio della propria libertà. La legge è in vista della libertà e questa scaturisce da un’autentica relazione con Dio e profonda conoscenza della sua verità. Dio chiama il suo popolo principalmente alla libertà e l’esperienza dell’esodo ne è la testimonianza più autentica e concreta. È paradossale perciò che proprio la Legge, il cui scopo è quello di rendere l’uomo libero, esponga all’asservimento e alla schiavitù. Ed è proprio questo falso approccio che scaturisce da una sua riduttiva interpretazione, a diventare motivo di polemica tra Gesù e i farisei. La legge è per la libertà e per la salvezza. Perciò va intesa come strumento per combattere il male, non per asservire l’uomo. Di conseguenza non può essere ridotta ad una norma giuridica, quasi che la sua trasgressione sia all’origine del peccato stesso. Per Gesù il peccato non si riduce alla trasgressione della legge. Esso ha origine ben più profonde, e ha nel cuore dell’uomo il centro decisionale. È qui che l’uomo matura e compie scelte di vita che contrastano con la volontà di Dio. Contro questo atteggiamento la Legge può ben poco, per questo Gesù, come già tutti i profeti prima di lui, invita a praticare l’unico atteggiamento veramente terapeutico per combattere l’ipocrisia: il “sacrificio di lode” (cf. Sal 49) che consiste nel confessare onestamente con le labbra ciò che si crede col cuore (cf. Eb 13,15). Esso prevede la consegna a Dio del proprio cuore, della propria mente, della propria volontà, della propria vita, in ultima analisi di se stesso. Solo chi sceglie di aderire pienamente e liberamente alla volontà di Dio vive la “religione pura e senza macchia”. Un simile culto scaturisce dalla scoperta della Parola di Dio come il bene più prezioso, al quale aderire con gioia e sincerità. Per Gesù tale sacrificio costituisce l’essenza stessa della religione, ovvero la cosa più gradita a Dio (cf. Sir 35,1-15).
[1]Naturalmente non tutti i farisei erano ipocriti – basta considerare Nicodemo – ma di certo era un atteggiamento molto diffuso. Rimane vero che il giudizio di Gesù si è così radicato col tempo che fariseo è diventato sinonimo di ipocrita. Forse per rispetto degli ebrei dovremmo guardarci da questa evidente riduzione offensiva o quanto meno limitarci ad usarla con molta circospezione.




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