1 Maggio 2022 - Anno C - III Domenica di Pasqua
- don luigi
- 30 apr 2022
- Tempo di lettura: 7 min
At 5,27-32.40-41; Sal 29/30; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
Mi ami tu più di costoro?

Dopo la prima apparizione di Gesù a Maria Maddalena, Giovanni ci racconta altri tre episodi di apparizioni, tutte rivolte agli apostoli (Gv 21,14). Le prime due, come abbiamo visto domenica scorsa, avvengono nel Cenacolo, a distanza di una settimana l’una dall’altra (cf. Gv 20,19-29), questa terza avviene invece sul lago di Tiberiade[1]. Rileggendo con calma questo episodio ci accorgiamo che esso presenta notevoli affinità con quello della pesca miracolosa descritta da Luca 5,1-11. Non sappiamo se si tratta di due episodi diversi, oppure dello stesso narrato e adattato alla circostanza. Preferiamo tenere aperte le due ipotesi. In ogni caso rimane significativa la prospettiva teologica che ha guidato la stesura redazionale dell’uno e dell’altro: Luca colloca il suo episodio nel contesto della chiamata dei primi discepoli, Giovanni lo colloca invece nel contesto delle prime apparizione del Risorto. In ogni caso si tratta di un inizio. La cornice è sempre quella dei discepoli e il tema è quello della fede, prima in Gesù e poi nel Cristo. In entrambi i casi il protagonista e Pietro: chiamato prima ad essere pescatore degli uomini e poi confermato nel suo mandato ecclesiale. Noi cercheremo di seguire la sua esperienza di fede, tenendo presente entrambi i brani evangelici.
Quello di Giovanni presenta una struttura tripartita, alla quale potremmo dare i seguenti titoli: 1) La tentazione del ritorno passato; 2) Il riconoscimento di Cristo; 3) La conferma del mandato missionario.
La tentazione del ritorno al passato.
Quella di Pietro è la situazione di quanti come lui sono chiamati a fare i conti col passato, dopo un’esaltante esperienza spirituale che ha provocato una profonda delusione e amarezza. Tutto sembrava andare per il meglio: Gesù con la chiamata lo aveva aperto a nuovi orizzonti spirituali, il suo lavoro gli era stato risignificato: da pescatore di pesci a pescatore di uomini (cf. Lc 5,10). Ma all’improvviso il sogno s’era frantumato dinanzi ai tragici avvenimenti della passione e morte del maestro. Gesù non c’era più e quello che più lo addolorava era la modalità della sua scomparsa: il maestro sembrava essere morto come un maledetto da Dio. Davanti a questo inaspettato epilogo Pietro sente l’esigenza di tirare le fila del discorso, ma soprattutto di riconfrontarsi con la realtà. Certo non era facile, dopo le prospettive così cariche di speranza a cui lo aveva aperto Gesù. Ma occorre pur continuare a vivere. In una simile prospettiva l’espressione: “Io vado a pescare” (Gv 21,3), suona un po’ come: ‘io torno al mio lavoro, che malgrado tutto, rende, ed offre ancora sicurezze, consentendo di vivere con dignità’. Pietro sembra maturare l’idea di riprendere la vita di prima, di fare ritorno al passato. Lo stesso sembrano fare i discepoli: “Veniamo anche noi con te” (cf. Gv 21,3). Ma la delusione è particolarmente cocente e in simili situazioni anche le cose più belle diventano scialbe. Senza Cristo tutto appare privo di senso. Anche il lavoro, malgrado lo sforzo non è più quello di prima. Si fa fatica a svolgerlo, diventa pesante e infruttuoso. Sterile. L’illusione, il fallimento, l’insuccesso sembrano generare nell’animo dei discepoli chiusure ermetiche, frustrazioni, scoraggiamenti; in particolare per Pietro che si porta ancora dentro la ferita del rinnegamento. Tutti sono taciturni e ciascuno sembra ripercorrere a ritroso la propria vita, cercando di capire chi e dove avevano potuto sbagliare e quale poteva essere la causa di questo fallimento.
Il riconoscimento di Cristo.
In questa situazione di delusione e frustrazione accade un episodio inaspettato. Mentre essi erano in barca, uno sconosciuto dalla riva chiede loro se hanno del pesce da mangiare. Chiusi e ciechi com’erano, però, non riescono a riconoscerlo. Anche i loro occhi, come quelli dei discepoli di Emmaus: “erano incapaci di riconoscerlo” (Lc 24,16). Questa richiesta sembra infierire sul loro stato d’animo, già particolarmente sofferente. Eppure quella voce, sia pure apparentemente provocante, sembra rimettere in gioco la loro vita. Davanti allo scetticismo dei discepoli, quell’uomo replica con una richiesta ancora più audace e provocante: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete” (Gv 21,6). D’un tratto riaffiora alla memoria un’esperienza analoga, che li riporta agli inizi della loro chiamata. Non si esclude perciò che si possa trattare di due episodi simili. Anche in quella circostanza Gesù aveva detto loro: “Gettate e troverete” (cf. Lc 5,4). Che non sia la stessa persona? Provarono a seguire il consiglio, giacché era ancora l’alba. E avendolo fatto presero una grande quantità di pesci che neppure riuscivano a tirare su le reti. Giovanni, sempre particolarmente attento alla sequenza dei fatti, con una rapida successione di pensieri, rivolgendosi a Pietro dice: “È il Signore!” (Gv 21,7). Una deduzione molto simile a quella compiuta nel sepolcro, quando dinanzi ai teli e al sudario, facendo sintesi della vicenda di Gesù: “vide e credette” (Gv 20,8). Si tratta di affermazioni di fede di cui Giovanni non esplicita chiaramente il percorso, ma che lasciano intendere un’operazione spirituale che si compie nel silenzio e nel segreto del cuore, là dove il credente, attraverso una sintesi sapienziale, misteriosamente condotta dallo Spirito, giunge a maturare la decisione della fede. Egli è attonito, ma non può contenere questa rinnovata scoperta, per cui la sua affermazione appare come un’esplosione di gioia. “E’ il Signore!”. Si, è Lui, ora non ci sono più dubbi. È veramente risorto! Proprio come dicevano le donne e gli altri discepoli. L’affermazione giovannea si comprende allora come una formula di fede che esprime il processo dell’intelligenza spirituale. Pietro appena udì che era il Signore recupera improvvisamente l’entusiasmo e la fiducia. D’un tratto quel senso di frustrazione scompare e alle parole di Giovanni, si getta subito nell’acqua, animato dal desiderio di rincontrare il maestro, dopo la dolorosa esperienza del suo rinnegamento.
La conferma del mandato missionario.
Questa rinnovata esperienza di Gesù, riscoperto ora nella sua identità gloriosa, suscita al contempo gioia e timore, al punto che “nessuno osava domandargli: “Chi sei? perché sapevano bene che era il Signore” (Gv 21,12). Gesù era effettivamente risorto, ma la sua presenza rimaneva un mistero di non facile decifrazione, che suscitava domande nel cuore dei discepoli, di allora come quelli di oggi: che tipo di vita è quella del risorto: egli entra a porte chiuse (cf. Gv 20,19), eppure si rivolge ai discepoli dicendo: “Venite a mangiare” (Gv 21,12)[2]. Come va inteso allora il corpo glorioso? E che relazione mantiene con la nostra vita biologica? Sono domande che ci lasciano solo intuire la qualità della vita nuova inaugurata dalla risurrezione di Cristo, ma di cui non disponiamo dati sufficienti neppure per balbettare una risposta.
A conclusione di quel pasto frugale accade l’imprevisto: Gesù rivolgendosi a Pietro disse: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?” (Gv 21,15.16.17). Pietro viene incalzato con una rapida successione di domande che lo portano a ripercorrere l’intero itinerario vocazionale: dalla sua chiamata: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che significa Pietro)” (Gv 1,42), alla sua conferma: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). Tre domande che lo interpellano e lo scuotono fortemente e, come osserva sant’Agostino, lo riconducono alla triplice e drammatica sequenza del suo rinnegamento. Domande esigenti quelle che Gesù pone a Pietro, alle quali non è affatto semplice rispondere. A Pietro Gesù non chiede semplicemente di amarlo, ma di “amarlo più di costoro”, più degli altri discepoli. Chi può misurare il grado d’amore che si prova per Gesù? Ciascuno di noi può dire di amarlo, ma è difficile stabilire se lo si ama più degli altri discepoli. All’inizio della chiamata Gesù aveva chiesto a Pietro di amarlo più della moglie, del lavoro, ma ora chiede addirittura di amarlo più degli stessi confratelli apostoli. Un’esigenza totalizzante, ancora più radicale della prima chiamata.
Mi piace riportare a questo punto un’intuizione del Card. Martini, il quale vede in questa triplice richiesta di Gesù un crescente d’amore che conduce Pietro a compiere un passaggio fondamentale nella vita del discepolo, che va dall’affetto amicale, quello cioè che lo teneva legato, per così dire, a Gesù storico, all’amore agapico e oblativo, col quale ora è chiamato a dare testimonianza della causa di Cristo e del suo vangelo: a dare cioè la vita non solo per lui, ma anche per la sua Chiesa, secondo l’istanza evangelica di Gesù: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Si tratta di una forma d’amore che, come chiarisce lo stesso Gesù, esplicita e preannuncia il suo martirio: “In verità, in verità io ti dico: quando eri giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”. A conferma di ciò lo stesso Giovanni ribadisce: “Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio” (Gv 21,19).
Una drammatica sequenza di domande con la quale Gesù sembra ribadire a Pietro, e con lui a chiunque si ritrova, ancora oggi, ad assumersi una qualsiasi forma di responsabilità nella Chiesa, di fondare la propria vocazione sull’amore oblativo di Cristo. Solo chi giunge a questa matura consapevolezza è in grado di purificare la propria chiamata da tutte quelle intenzioni umane che spesso albergano tacitamente dentro di noi e, in non pochi casi, portano a considerare e a vivere il ministero ecclesiale come una forma di prestigio o, peggio ancora, a strumentalizzare la Chiesa per scopi personali.
Una metodologia significativa questa elaborata da Gesù nei confronti Pietro e per chi, come lui, è chiamato nella Chiesa ad assumersi la responsabilità della sua guida; e più in generale per chi è chiamato a verificare l’autenticità di un ministero ecclesiale. L’amore pieno e totalizzante che Pietro deve nutrire per Cristo, costituisce il criterio di discernimento fondamentale, per verificare la sua reale docilità all’azione dello Spirito nella Chiesa; quello che più di tutti garantisce la presenza di Cristo in mezzo agli apostoli (cf. Mt 18,20); e la luce per comprendere la sua volontà. Pietro è chiamato ad essere un punto di riferimento nella Chiesa, ma per assolvere questo compito egli non può appellarsi alle sue qualità morali, spirituali o intellettive, nelle quali per altro è apparso chiaramente fragile, bensì fondarsi sul perdono di Cristo. Solo ravvedendo la sua fede in Cristo, può confermare quella dei suoi fratelli nella Chiesa (cf. Lc 22,32). Il futuro della fede di Pietro, come quello di ciascuno di noi, dipende da questa rinnovata dichiarazione all’amore oblativo di Gesù. È a queste condizioni che possiamo rinnovare il nostro sì alla sua sequela e sentirci ripetere ancora una volta “Seguimi!” (Gv 21,19).
[1] Questa terza apparizione costituisce un’ulteriore conclusione a quella già descritta nel capitolo 20. Secondo gli esegeti essa è aggiunta al testo dall’evangelista stesso oppure dai suoi discepoli (cf. nota Bibbia di Gerusalemme). [2] È utile rileggere questo episodio alla luce della moltiplicazione dei pani, durante il quale Gesù compie gli stessi gesti (cf. Gv 6,11). Lo stesso Giovanni nel descrivere quel particolare momento ripete lo schema narrativo.




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