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09/08/2020 - 19a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


1Re 19,9a.11-13a; Sal 84/85; Rm 9, 1-5; Mt 14, 22-33

Signore, dì che io venga a te sulle acque

Dopo il miracolo della Moltiplicazione dei pani la liturgia della Parola ci propone dei brani che ci invitano a meditare sul tema della fede. Così mentre l’esperienza che ne fa il profeta Elia ci insegna a cogliere il suo linguaggio comunicativo e la delicata sensibilità che lo caratterizza (cf. 1Re 19, 9.11-13), quella di Pietro ci fa cogliere la necessaria fiducia che la precede e la leggerezza spirituale che l’accompagna (cf. Mt 14, 28-32). Dall’uno e dall’altro caso emerge la fede come metafora del cammino esistenziale e spirituale, tanto personale quanto ecclesiale del credente.

Fa da sfondo a questa esperienza la preghiera, come contesto intimo e spirituale nel quale la fede accade e diviene comprensibile, come ad evidenziare che nessuna esperienza di fede è possibile fuori dalla preghiera. Gli evangelisti non fanno passare inosservato questo aspetto, specie in merito alla vicenda di Gesù. Nulla egli compie fuori da questo alveo di vita divina. In particolare Luca ci fa capire come essa precede, accompagna ed orienta tutte le scelte e gli avvenimenti più importanti di Gesù: egli prega in occasione del battesimo (cf. Lc 3, 21); prima di scegliere i dodici (cf. Lc 6, 12); prima di insegnare il Padre nostro (cf. Lc 11, 1); prima della confessione di Cesarea di Filippo (cf. 9, 18); nel Getsemani (cf. Mt 26, 36-44); sulla croce (cf. Lc 23, 46; Mt 27, 46). La preghiera non fa che manifestare il permanente e intenso rapporto che Gesù intesseva col Padre. Per questa ragione essa costituisce un luogo di unità inscindibile, all’interno del quale egli chiede e viene continuamente ascoltato dal Padre (cf. Gv 11, 41-42) e insegna a fare altrettanto ai suoi discepoli (cf. Gv 15, 7). Non a caso Matteo la menziona sia prima della moltiplicazione dei pani: “Gesù … si ritirò in disparte in un luogo deserto” (Mt 14, 13); sia prima dell’episodio nostro in questione: “Congedata la folla, salì sul mote, solo, a pregare” (Mt 14, 23). Essa fa da cornice ai grandi avvenimenti. Di solito Gesù prega nella solitudine, di notte, nel deserto o su un monte. Essa costituisce, senza dubbio, un intenso momento di vita intima e profonda che egli vive con ardente desiderio e attiva partecipazione personale; alquanto diversa dalla nostra, spesso legata a un dovere che la rende onerosa, pesante, impegnativa e non poche volte perfino tediosa. Diversamente da molti di noi Gesù prega con gusto e vivo piacere personale.

La testimonianza di Gesù ci stimola ad un rapporto più libero e personale con la preghiera, soprattutto a considerarla come linfa e condizione necessaria per la nostra esperienza di fede. In questo senso gli episodi di Elia e di Pietro ci offrono diversi spunti di riflessione, sui quali è opportuno soffermarci con la nostra meditazione. Entrambe le esperienze accadono all’interno di un contesto alquanto drammatico, a testimonianza che la fede difficilmente progredisce in una circostanza idilliaca, ma sempre in un momento di prova che sembra precluderci ogni prospettiva di speranza, per questa ragione essa viene vissuta come un evento di liberazione e Dio viene esperito come colui che prende parte alla propria vicenda personale. In questo senso essa costituisce una circostanza storicamente incarnata, nella quale il credente si sente particolarmente coinvolto a livello esistenziale. A maggior ragione essa diviene parte integrante e fondativa della propria vita; un nucleo vitale intorno al quale comincia a svilupparsi tutta la propria esistenza e una nuova visione di vita.

Che la fede cresca in circostanza perfino pericolose lo attesta il caso di Elia: il profeta è costretto a fuggire dalla regina Gezabele che lo perseguita a causa della sua manifesta opposizione alla diffusione della religione di Baal in Israele, della quale aveva sterminato ben quattrocentocinquanta profeti, a seguito del sacrificio compiuto sul monte Carmelo (cf 1Re 18, 20-40). Egli, stanco di essere incalzato, trova rifugio sul monte Oreb, sul quale chiede a Dio di morire a causa della sua missione, che percepisce fallimentare. Ma proprio in questa circostanza di scoraggiamento Dio gli si rivela in un modo inconsueto, al quale egli non era affatto abituato. Diversamente dal solito Dio non gli parla attraverso il terremoto, il vento impetuoso, il fuoco divorante, tutti elementi appartenenti alla dimensione rivelativa originatasi dalla tradizione mosaica a partire dal monte Sinai, ma attraverso il mormorio di un vento leggero. Il nuovo elemento comunicativo di Dio costringe il profeta ad una rinnovata e più raffinata sensibilità spirituale. La brezza leggera diventa così il simbolo di un nuovo atto percettivo che accade non tanto a livello naturale ed esterno, quanto spirituale ed interno. Elia infatti viene colto da questo venticello leggero mentre si trovava rintanato nella caverna, ovvero chiuso nei meandri più oscuri di sé, a causa del forte dolore che la persecuzione gli stava procurando. E proprio lì Dio va a scovarlo, per riportarlo all’originario atto di fede, quello compiuto da Abramo. Come allora ad Abramo, ora Dio chiede anche ad Elia di uscire da sé, dal suo dolore, dal suo io. Forte di questa nuova esperienza di Dio, Elia si reca fuori dalla caverna, coprendosi il capo col suo mantello, esattamente come aveva fatto Mosè, dopo le sue visioni (cf. Es 3, 6; 34,33).

Questa novità manifestativa di Dio di cui viene fatto oggetto Elia diventa per noi un invito ad andare oltre gli insegnamenti tradizionali della fede; a non fermarsi al sentito dire e neppure ad appellarsi all’esperienza personale che, magari senza accorgerci, è divenuta nel tempo abitudinaria, più legata ai precetti, alle regole, agli schemi che non alla perenne novità dello Spirito che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21, 5). Anche noi allora come Elia siamo invitati a scendere nelle profondità dell’esperienza della fede, a coglierne la dinamica, le condizioni di cui necessita per una maggiore attenzione ai linguaggi comunicativi di Dio, sempre imprevedibile e creativo nelle sue manifestazioni.

Come quella del profeta anche l’esperienza di fede compiuta da Pietro accade all’interno di un contesto violento come quello della tempesta. Anche in questo caso gli elementi naturali acquistano una valenza simbolica che preludono a tutto quel dinamismo che caratterizza la vita spirituale quando è drammaticamente attraversata da forti turbolenze e crisi esistenziali. Sorprende il verbo che introduce tutto il racconto della scena: “Dopo che la folla ebbe mangiato, subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva” (Mt 14, 22). Di solito siamo abituati ad immaginare le crisi di fede causate da fattori oggettivi o soggettivi, naturali o personali, quasi sempre legati a motivi scatenanti che ne determinano la gravità e la durata, ma difficilmente a farla risalire all’azione diretta di Dio. La presenza di questa voce verbale al passato remoto: costrinse, sembra invece collegarla all’azione diretta di Gesù, il quale quasi obbliga i suoi discepoli ad entrare nella crisi, come a voler far loro compiere esperienze inevitabili e necessarie per il loro processo di maturazione. In effetti, volente o nolente non ci sono altri percorsi per crescere e maturare nella fede. Le crisi rimangono il banco di prova più efficace. Si tratta però di saperle cogliere come tali e non come circostanze nelle quali cedere alla tentazione di lasciar perdere tutto. Non è sempre facile riconoscere la forma con cui Dio si manifesta nella nostra vita, ma la crisi, il dolore, la sofferenza, lo scacco, il fallimento - come attesta per altro anche l’esperienza del profeta Elia - sono certamente momenti che occorre imparare a cogliere subito e con gioia, se s’intende progredire velocemente in essa. Gesù ci ha dato prova di esse come vie manifestative della volontà di Dio, durante la sua passione. Anche noi allora spinti da questo desiderio di Gesù di vederci maturi nella fede, vogliamo salire sulla barca e, senza indugio, entrare nelle nostre tempeste esistenziali, convinti di essere da lui guidati, anche quando, come i discepoli, facciamo fatica a riconoscerne il volto: “E’ un fantasma” (Mt 14, 26), dissero i discepoli all’apparizione di Gesù sulle acque tempestose del lago. Anche noi, infatti, spesso nelle nostre crisi giungiamo al paradosso della nostra fede, quando attribuiamo a Dio la causa dei nostri mali, come di chi decide indiscriminatamente la sorte di colui che deve soffrire rispetto ad altri. Non poche volte queste forme paradossali della fede vengono sperimentate nei momenti più delicati delle nostre crisi. L’evangelista esprime tutto ciò con un particolare apparentemente curioso, in realtà molto significativo: “Verso la fine della notte” (Mt 14, 25), letteralmente “alla quarta veglia”, dalle tre alle sei del mattino, quando cioè si avverte tutto il peso e la stanchezza di una nottata, vissuta tra “resistenze e rese” (D. Bonhoeffer), senza tuttavia giungere a risultati positivi, al contrario, sperimentando il totale fallimento di ogni azione (cf. Lc 5, 5) e per giunta abbandonati anche delle persone più care. A rendere ancora più grave e drammatica la circostanza è il paradosso di una fede collettiva. Rispetto a quella descritta dal primo libro dei Re, l’esperienza di fede raccontata dall’evangelista Matteo non riguarda solo un singolo, ma tutti i discepoli. Si tratta dunque di un’esperienza comunitaria che lascia immaginare la sua serietà, quando coinvolge la Chiesa. Basti immaginare per esempio il clima ecclesiale piuttosto difficile che si respirava ai tempi della crisi ariana, durante la quale la Chiesa tutta era divisa in due: pro e contro Ario. La sua visione teologica rendeva particolarmente difficile riconoscere l’identità divina di Gesù. Ma come nel caso del profeta Elia anche in questo caso Dio sorprende col suo intervento totalmente imprevedibile. Proprio quando tutti pensavano di affondare, ovvero quando ormai non rimaneva che gridare: siamo spacciati, Gesù si fa riconoscere con la sua parola di speranza: “Coraggio, sono io, non abbiate paura” (Mt 14, 27). Ecco la circostanza limite che genera nel cuore dei discepoli e in particolare di Pietro, la massima fiducia in Cristo: “Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sulle acque” (Mt 14, 28).

È emblematica questa richiesta di Pietro. Egli decide di sottoporsi alla verifica più estrema: camminare sulle acque in tempesta, per capire se veramente si fidava del maestro. La sua è una prova nella quale decide di entrare liberamente, senza alcuna costrizione. È lui che chiede di sottoporvisi. Lo fa senza nessun accanimento volontaristico o razionale, ma nella totale libertà spirituale. Consapevole di questo suo particolare livello di fede, Gesù acconsente: “Vieni!”, gli disse. E Pietro va, esattamente come aveva fatto all’origine della sua chiamata: “Sulla tua parola getterò le reti” (Lc 5, 5). Anche ora egli viene invitato a fidarsi totalmente di Cristo, a testimonianza di una fede caratterizzata da un dinamismo antico e sempre nuovo.

La fede sperimentata da Pietro in questa circostanza potrebbe essere riletta anche in chiave mistica. Il superamento della forza di gravità è un puro dono spirituale, del quale solo alcuni mistici dispongono. Egli tuttavia vi permane solo per poco tempo. La sua esperienza dura finché l’infuriare della tempesta non mette in discussione le sue certezze e fanno riaffiorare in lui l’antica paura della morte: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” (Mt 14, 31), gli domanda Gesù. Dinanzi alla percezione della fine riemergono i pensieri ancestrali, con i quali siamo continuamente chiamati a fare i conti. La fede ci riporta alle origini della nostra esistenza e a intuire il forte influsso che esercita su di noi quella misteriosa forza del male che tende costantemente ad allontanarci da Dio. Ma è proprio da questo abisso oscuro del male che alberga dentro di noi, e nel quale sperimentiamo tutta la nostra fragilità e debolezza umana che scaturisce il grido più autentico della fede cristiana: “Signore, salvami!” (Mt 14, 30). La salvezza alla quale Pietro chiede di pervenire non è la somma delle virtù personali o il risultato della volontà e della conoscenza umana, ma un puro dono gratuito di Cristo. Solo quando come Pietro, sperimentiamo questo abisso oscuro della nostra esistenza nel totale fallimento delle nostre qualità, si compie il vero atto di fede. È qui che anche noi come i discepoli, riusciamo a cogliere la grandezza della potenza redentiva di Gesù e a formulare la nostra più autentica professione di fede: “Davvero tu sei il Figlio di Dio” (Mt 14, 33).

 
 
 

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