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09/04/2020 - Messa in Coena Domini - Anno A




Messa in Cena domini Anno A

9 aprile 2020


Es 12, 1-8.11-14; Sal 115/116; 1Cor 11, 23-26; Gv 13, 1-15


Cari amici ed amiche è quanto mai appropriato questo appellativo con cui mi rivolgo a voi. Se infatti c’è una ragione che lo giustifica, questa scaturisce proprio dal contesto della Cena Domini, dove Gesù, durante il Discorso di Addio (cf. Gv 13, 31-17-26), si rivolge ai suoi con l’appellativo di amici. Ed è significativo che solo alla fine della sua vita egli qualifichi i suoi con l’appellativo di amici, come referenti di un amore disponibile fino al dono di sé (cf Gv 15, 13). È su questa base che anche noi fondiamo la nostra disponibilità; che ci auguriamo, come la sua, fino al dono di noi stessi. Non lasciamoci perciò condizionare dai vari rinnegamenti o tradimenti, che in diversi modi e forme, possiamo sperimentare durante il nostro cammino di fede, ma confidiamo nell’infinito amore che promana dall’amicizia di Gesù e che lui, proprio nel momento della prova, ha condiviso allora con i suoi e oggi con noi.

Più che un commento omiletico vorrei fare insieme a voi una riflessione sul significato che il Triduo Pasquale – nel quale ci introduciamo con questa celebrazione – comporta nella nostra vita, soffermandomi in modo particolare sulla liturgia della Cena Domini o più specificamente, sul segno della Lavanda dei piedi, che l’Evangelista Giovanni, preferisce a quello della Cena – raccontata dai Sinottici – come segno di una vita spesa a favore dell’altro. Vorrei perciò invitarvi a rileggere in questa prospettiva tutti quei gesti che in qualche modo ci pongono al servizio dell’altro e a verificare fino a che punto anche noi siamo in grado di spingerci così oltre, come ha fatto lui (cf. Gv 13, 15). Non si tratta di imitare pedissequamente o formalmente i suoi gesti, ma di capire la forma più idonea, con cui attuare tale servizio nella nostra realtà sociale. Magari può capitarci di incontrare persone che si sottraggono al nostro amore, come fa Pietro che replica a Gesù: “Non mi laverai mai i piedi” (Gv 13, 8), o che il nostro gesto rimanga incompreso, come lasciano intendere le parole di Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo” (Gv 13, 7), l’importante è farlo con la stessa coscienza che motiva l’amore di Gesù. E’ a questa condizione che anche noi cominciano a partecipare della sua causa evangelica.

Il tempo liturgico del Triduo Pasquale costituisce il cuore del mistero della fede cristiana. Anche noi siamo invitati ad entrare nella logica della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù. Non c’è momento più autentico e vero, per manifestare la nostra piena solidarietà a lui, se non questo. La prova rimane il luogo più autorevole per verificare la vericità della nostra amicizia. E quella alla quale siamo sottoposti con questa pandemia, è senza dubbio una circostanza di prova. E qual è la sua funzione se non quella che ci viene esposta dall’autore del libro del Deuteronomio, dove Dio, come al popolo ebraico nel deserto, ci invita a fare memoria di tutto il cammino che il Signore nostro Dio ci ha fatto percorrere in questo tempo … per sapere quello che abbiamo nel cuore e se siamo veramente disposti a seguirlo (cf. Dt 8, 2). Non basta perciò essere nella prova, così come non basta rimanere nel mare, o nel deserto. Occorre giungere alla terra promessa, per dirci veramente liberi. La libertà è oltre il mare, oltre il deserto, oltre la prova. Solo chi avrà il coraggio di accoglierla, viverla e attraversarla, potrà passare dall’inquietudine e dall’angoscia che questa situazione va generando nei nostri cuori, alla gioia della vita nuova in Cristo. Non desideriamo perciò di tornare alla vita di prima perché è esattamente la ragione per cui siamo entrati in questa prova. Anche se il deserto della rinascita dovesse rivelarsi duro, non lasciamoci prendere dalla nostalgia di quello che abbiamo perduto. Solo chi avrà lo sguardo fisso su Cristo, potrà cogliere la novità che questo segno dei tempi reca con sé, e lasciarsi rinnovare dallo Spirito che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21, 5). Ecco dunque la pasqua che Cristo ci chiama a compiere in questo tempo: passare da uno stile di vita fondato sul benessere che ci ha fatto praticamente dimenticare il senso della gratuità, della sosta, della libertà, della relazionalità, insomma di quelle cose semplici che rendono la vita autentica, ad uno stile di vita ecclesiale fondato sulla reciprocità del “Dove due o più” (Mt 18, 20). Non è forse questo il modo con cui, oggi più che mai, siamo chiamati a rendere credibile la presenza viva ed operante di Cristo, in un contesto culturale e sociale dove l’individualismo dilaga più della pandemia del coronavirus? Che cosa abbiamo da dire, alla nostra gente, coinvolta nel ritmo frenetico di una vita che rasenta costantemente la schizofrenia, se non offrire quelle condizioni spirituali che aiutano a cogliere il senso di questa circostanza storica? Non bisognerebbe porsi nello stesso atteggiamento esplicativo di Gesù e parafrasare la domanda che lui pone ai suoi: Capite quello che sta succedendo? (cf. Gv 13, 12). Cosa significa porsi al servizio dell’altro se non aiutarli a maturare quello sguardo profetico, con cui interpretare il misterioso piano salvifico di Dio in questo tempo? Cos’è servire, cos’è cingersi il fianco col grembiule, se non entrare in quella logica di servizio che aiuta a far prendere coscienza delle vere istanze esistenziali della nostra gente? Cosa significa cingersi la stola sulle spalle, se non vivere il nostro sacerdozio regale, donando gratuitamente l’amore libero e liberante di Cristo? E di cosa anche noi abbiamo bisogno d’essere lavati, se non di quelle paure ed angosce che offuscano la nostra speranza, fino a renderci tristi e pessimisti? Non si tratta perciò di ripetere un segno, ridotto per altro ad un gesto più o meno formale e spettacolare, come avviene nelle nostre liturgie, ma di recuperare il suo significato di memoriale: “Se dunque io, il vostro Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri” (Gv 13, 14), alla stessa stregua del: “Fate questo in memoria di me” (1Cor 12, 23). Si tratta perciò di compiere un’autentica liturgia della lavanda dei piedi, ovvero condividere la stessa mentalità di servizio di Cristo. Una mentalità che tradotta nella vita quotidiana, comporta una vera e propria kenosi del nostro modo di pensare, di vivere, di relazionarci, insomma una revisione di quella struttura sociale e relazionale che in nome della soggettività e della libertà, ci ha relegato in una esistenza spersonalizzante, individualista ed egocentrica.

Il sacerdozio a cui Cristo ci chiama allora, consiste nel consegnare se stessi, la propria volontà, il proprio io, la propria ragione, la propria intelligenza, creatività, progettualità sull’altare della volontà di Dio, specie quando avvertiamo la fatica e il peso della sua attuazione nella vita quotidiana. È qui che abbiamo ancora una volta la possibilità di rinnovare il nostro sì, al suo amore, convinti che propria questa logica di servizio ci darà il coraggio di scendere con lui nel sepolcro del nostro io e lì rimanere in attesa, fino all’aurora di quel primo giorno dopo il sabato, quando lo Spirito inaugurerà in noi la nuova vita in Cristo.


Don Luigi Razzano



 
 
 

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