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07/06/2020 - Santissima Trinità Anno A


Es 34, 4-6.8-9; Dn 3, 52-56; 2 Cor 13, 11-13; Gv 3, 16-18


L’amore trinitario: uno stile ecclesiale

La Chiesa ci fa celebrare la solennità della Santissima Trinità subito dopo la Pentecoste, come a dire che solo chi dispone del dono dello Spirito Santo può scrutare il mistero della vita divina: “Lo Spirito infatti scruta ogni cosa anche le profondità di Dio” (1Cor 2, 10). È significativo perciò che tale dono giunga al termine di un percorso di fede in Cristo, come quello tracciato dalla liturgia durante tutto il tempo quaresimale e pasquale. Questo ci fa capire che solo chi intesse con Cristo una relazione di fede può partecipare del dinamismo del suo amore trinitario: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27). Un segreto questo che egli rivela a chi lo ama: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (cf. 1Cor 2, 6-9), a noi dunque che abbiamo ricevuto l’amore di Dio per mezzo dello Spirito di Cristo (cf. Rm 5, 5). L’amore trinitario costituisce perciò il principio, il senso e il fine della vita evangelica di Cristo e di ogni forma di relazione d’amore che egli intesse con le persone. È a questa verità che egli si riferisce nel suo Discorso di Addio: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16, 13-14). Ed è in questa luce che anche noi siamo chiamati a tessere le nostre relazioni ecclesiali e sociali.

E’ importante partire dal vissuto evangelico di Cristo per accostarci a questa verità di fede, fuori dal quale il mistero trinitario rischia di essere ridotto solo ad un assurdo e insolubile problema razionale. In questa prospettiva ritengo opportuno riproporvi quelle domande metodologiche che ci stanno accompagnando da qualche domenica: come viene compresa, tradotta e vissuta la verità della vita trinitaria a livello spirituale? Quale risonanza essa ha nella vita relazionale della Chiesa? È emblematico quello che afferma un noto teologo del ‘900, secondo il quale un’eventuale esclusione del dogma della Trinità dalla dottrina cristiana, lascerebbe perfettamente indifferenti i fedeli, tanto scarsa è la sua incidenza nella loro vita di fede (cf. K. Rahner). Questa affermazione per quanto paradossale è estremamente significativa, poiché rivela tutte le conseguenze negative di un approccio essenzialmente intellettivo al mistero della Trinità, al quale ci ha abituato una certa teologia. Al contrario essa prima ancora di essere formulata come un dogma di fede è un’esperienza di vita, di grazia, di comunione d’amore. Si rivela perciò quanto mai puntuale e chiarificativo il saluto di Paolo ai Corinti: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2 Cor 13, 13).

Se c’è una ragione dunque che ci permette di intuire o di balbettare il mistero della vita trinitaria questa è senza dubbio l’amore. È in questa chiave che il nome di Dio si va gradualmente dischiudendo all’intelligenza biblica, attraverso alcune esperienze di fede, come quella di Mosè, descritta nel libro dell’Esodo, dove il Signore viene esperito fondamentalmente come “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34, 5-6). Un Dio che non ha ragione d’essere e di vivere se non col suo popolo e in mezzo al suo popolo: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi” (Es 34, 9). Questa è l’esperienza originaria e fondativa che il popolo d’Israele fa di Dio. Questa è l’essenza che Gesù eredita e dischiude attraverso la sua vita evangelica. Questa è anche la ragione che giustifica la sua esistenza tra gli uomini: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 5, 17). L’amore per l’uomo rende ragione della sua incarnazione e della sua passione e morte.

Un amore tuttavia al quale si può partecipare solo spogliandosi di sé, attraverso un percorso battesimale, quale condizione fondamentale che Gesù chiede a chiunque va maturando l’idea di mettersi alla sua sequela, come a Nicodemo, al quale Gesù chiede di rinascere dall’alto, ovvero dallo Spirito. Il che significa che solo chi come lui ha il coraggio di mettere in discussione la propria intelligenza, il proprio sapere e perfino la propria esistenza, potrà acquisire quella mentalità di Cristo, con la quale accedere alle origini della sua vita divina, relazionale, d’amore. L’atteggiamento remissivo di Nicodemo ci permette di cogliere il senso dell’inno di giubilo di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11, 25-26).

È alla luce dell’amore trinitario che rileggendo la vicenda esistenziale di Gesù noi cogliamo anche la dinamica del suo amore kenotico, secondo la descrizione che ne fa Paolo nella sua lettera ai Filippesi 2, 5-11. Svuotandosi della sua divinità Cristo si dispone ad accogliere e vivere fino in fondo l’umanità, quale condizione imprescindibile per attuare il piano salvifico del Padre. Tuttavia il ritorno di Gesù al Padre è stato necessario per la discesa dello Spirito nel mondo: “è bene che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore” (Gv 16, 7). Gesù, per così dire, si fa nulla per far essere lo Spirito. A sua volta lo Spirito si fa silenzio per lasciar parlare la Chiesa: “Apparve loro come lingue di fuoco …; ed essi cominciarono a parlare” (At 2, 3-4). Egli non parla, ma fa parlare. La dinamica trinitaria spiega quella della vita ecclesiale. Gli apostoli, infatti, come Gesù, si mettono da parte, per rendere presente Gesù in mezzo a loro, non più storicamente, ma nella forma dello Spirito: “Io sarò con voi, sempre, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Lo Spirito perciò è all’origine di ogni cosa autenticamente divina ed ecclesiale, ispirando parole, pensieri, gesti ed eventi. Egli, dunque, è essenziale per la vita della Chiesa. Ne costituisce l’Anima. La Chiesa è dunque il luogo in cui s’incarna la stessa relazione trinitaria che sussiste tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Ecco la verità di cui parla Gesù. Per questa ragione la verità non è mai un concetto astratto, ma sempre riferita alla vita divina, dalla quale tutto ha origine, e nella quale ogni cosa ha senso e compimento. È in questa dinamismo relazionale che si coglie il senso pieno della formula giovannea: “Dio è amore” (1Gv 4, 16).

Si viene dunque a creare un gioco di reciproco svelamento d’identità personale: il Padre, per mezzo dello Spirito, fa comprendere l’identità di Gesù (cf. Mt 16, 17); Gesù, per mezzo dello stesso Spirito, fa capire ai suoi l’identità paterna di Dio (cf. Gv 12, 44-50); i discepoli, in virtù dello Spirito, rendono visibile il volto e la presenza di Cristo in mezzo a loro (cf. Mt 18, 20). Questa relazione interdivina e interumana costituisce, pertanto, l’orizzonte ermeneutico, che rende comprensibile l’essenza della Chiesa nel mondo e la sua dimensione missionaria, scaturita dal mandato di Gesù ai suoi di estendere a tutti i popoli lo stesso stile di vita divino: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 20).” Nelle intenzioni di Gesù la Chiesa è la Trinità sulla terra, fondata sulla legge dell’amore scambievole, ecco il luogo manifestitivo della vita trinitaria.

 
 
 

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