05/04/2020 - Domenica delle Palme - Anno A
- don luigi
- 5 apr 2020
- Tempo di lettura: 9 min
Domenica delle Palme Anno A
5 marzo 2020
Mt 21, 1-11; Is 50, 4-7; Sal 21/22; Fil 2, 5-11; Mt 26, 14-27, 66
Una Domenica delle Palme decisamente unica quella di quest’anno e di tutta la Settimana Santa che seguirà. In tutta la storia del cristianesimo mai la Pasqua è stata celebrata e vissuta senza la partecipazione del popolo. Un autentico paradosso sotto l’aspetto ecclesiale, che ci riporta, però, a riscoprire le origini della fede cristiana, quando le ‘domus’ dei fedeli costituivano i luoghi privilegiati per i raduni eucaristici. Di certo, in questo momento, in esse, neppure celebrare è possibile, ma possono rivelarsi autentici luoghi dove vivere il “Dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì sono io, presente in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Non è forse questo uno degli aspetti che ci fanno Chiesa viva ed operante? L’impossibilità di partecipare ai vari riti previsti in questo periodo liturgico, ci dà modo allora di cogliere più profondamente il senso originario della ‘liturgia d’amore’ praticata da Gesù. Anche lui, da ‘laico’ qual era, non ha mai officiato alcun rito religioso nel tempio, se non quello della Cena pasquale, nel ‘Cenacolo dell’amicizia’, durante la quale, per altro, stando al Vangelo di Giovanni, ha voluto vivere il dono totale di sé, non nella forma della cena eucaristica, come attestano i Sinottici, bensì come servizio della lavanda dei piedi, un modo inconsueto d’amare per un maestro, un gesto praticato solo dagli schiavi. Un segno questo che manifesta il totale svuotamento dell’immagine gloriosa, con cui si era soliti raffigurarsi il Messia. Gesù ci fa capire dunque che la vera liturgia non è tanto quella rituale o ministeriale, alla quale spesso partecipiamo in modo distratti e indifferenti, quanto quella che accade nel momento in cui riusciamo a dire il nostro sì alla volontà di Dio. Questo è il sacrificio più gradito al Padre: conformare alla sua la nostra volontà. Non si tratta di offrire qualcosa di noi, ma la nostra intelligenza, la nostra ragione, il nostro consenso, la nostra totale adesione al suo piano d’amore. È in questa decisione che anche noi partecipiamo del dono che Gesù ci fa di se stesso. In altre parole, quando nelle varie circostanze della vita quotidiana, riusciamo a dire il nostro sì a Cristo e alla sua logica evangelica, quella diventa la liturgia cristiana autenticamente celebrata. In quel momento anche noi siamo sacerdoti in Gesù e con Gesù. Il senso autentico del sacerdozio di Cristo consiste allora non nell’officiare un rito, ma nel donare se stessi a Dio, la nostra mente, il nostro cuore, la nostra volontà, la nostra creatività, le nostre opere, la nostra vita.
Paolo esprime questo atteggiamento di Gesù col termine greco di kenosi, ovvero del radicale svuotamento e rinnegamento di sé, vissuto fino al servizio umiliante del lavacro dei piedi. A dire il vero tutta la vita di Gesù è stata una progressiva kenosi – come attesta lo stesso Paolo nella lettera ai Filippesi 2, 5-11 (seconda lettura) – a partire dal concepimento nel seno di Maria, fino alla discesa agli inferi. Un rinnegamento e svuotamento che scaturisce dalla libera e liberante adesione all’amore del Padre e vissuto esclusivamente in vista di una totale solidarietà alla condizione peccaminosa dell’uomo. Questo atteggiamento kenotico di Gesù ci offre dunque la chiave di lettura per vivere nella giusta prospettiva la Settimana Santa. Non si tratta solo di assistere virtualmente alle celebrazioni previste dai vari canali televisivi o attraverso i social, ma di condividere la sua logica di rinnegamento, per aderire sempre più profondamente al piano salvifico del Padre, verso il quale Gesù rimane fedele fino alla fine, malgrado tutte le varie forme di violenze che si accaniscono contro di lui, proprio in questa sua ultima settimana di vita. Questo comporta per ciascuno di noi il coraggio di lasciarci interpellare da quel modo suo di vivere, fino in fondo, l’amore del Padre per l’uomo. Un modo che l’evangelista Giovanni esprime in questi termini: “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). “Sino alla fine”, ovvero fino al totale annientamento di sé, con la piena consapevolezza che quella fedeltà e decisione di andare fino in fondo, avrebbe comportato la sua morte. È questa consapevole fedeltà di Gesù che siamo chiamati a condividere e attuare nella Settimana Santa.
Proviamo perciò a seguire, per quanto è possibile, passo passo, Gesù in questo suo cammino di fedeltà alla volontà del Padre, attraverso l’itinerario che la liturgia della Parola traccia in questa domenica, che va dall’Ingresso in Gerusalemme fino alla sua morte in croce. Volendo potremmo estendere questo itinerario anche all’arco della Settimana Santa, lasciandoci guidare dall’intima certezza che Paolo assicura ai Romani: “Se veramente partecipiamo delle sue sofferenze, parteciperemo anche della sua gloria” (Rm 8, 17). Fedeltà che diventa perseveranza nella prova, specie quando questa si fa più dura e difficile da sostenere, come nella situazione descritta dal profeta Isaia, nella quale siamo invitati a ripetere il nostro sì, anche nelle circostanze in cui le persone che ci circondano non vogliono affatto sentir parlare di Dio né di salvezza: “Dissi: ‘Eccomi, eccomi’ a gente che non invocava il mio nome. Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona, seguendo i loro capricci, un popolo che mi provocava sempre, con sfacciataggine” (Is 65, 1b-3a).
Se mi consentite allora, prima di passare al commento delle letture, vorrei suggerirvi un consiglio: in questi giorni evitate di cadere nella tentazione della frenesia del consumismo spirituale, passando da una trasmissione religiosa all’altra, senza un criterio logico, dettati più da un trasporto emotivo e spirituale del momento o, peggio ancora, dalla paura di una possibile condanna da parte di Dio e quindi di una morte senza la sua benedizione, che da un vero e autentico moto spirituale. Tutte queste forme o pratiche religiose e devozionistiche finiscono presto, una volta passato il pericolo, senza produrre alcuna conversione. Un’autentica esperienza di fede nasce invece dall’ascolto e dall’assimilazione quotidiana e paziente della Parola di Dio. Da qui, l’opportunità di sforzarsi a fare una meditazione un po’ più prolungata, rispetto a quelle frettolose che facciamo tra una distrazione e l’altra. È questo un modo attraverso il quale il Signore prende dimora dentro di noi e ci salva con la sua mistica presenza, anche qualora non dovessimo avere la possibilità di riconciliarci con lui, come tanti avvertono il desiderio di fare, specie durante la Settimana Santa. Pertanto se è vero che la circostanza ci impedisce di vivere tale sacramento, è anche vero che non bisogna mai smettere di sperare nella misericordia di Dio che attraverso la creatività dello Spirito, trova sempre infiniti modi per redimerci. Dio è più grande dei nostri peccati. Egli chiede solo di essere riconosciuto come Signore e salvatore.
L’ingresso in Gerusalemme (cf. Mt 21, 1-11) ci fa capire il rischio di fondare la scelta della fede sul consenso unanime della gente. Il popolo, considerato nel suo insieme, è una massa informe, amorfa, una forza disordinata, un corpo mutevole che acclama e condanna: senza un leader che guidi la sua intelligenza è difficile che giunga a idee chiare, stabili e decisioni ponderate. Da qui la necessità di fondare la fede personale solo su Dio, non sull’intesa collettiva. Essa non è un fenomeno d’audience. La religione prima ancora di diventare un fenomeno di massa è evento di fede, fondato sul rapporto personale con Dio. Questa è la ragione per cui Gesù ha privilegiato il rapporto interpersonale a quello di massa. Dopo aver fatto un discorso al popolo, Gesù si è sempre procurato di verificare, attraverso un rapporto personale, la ricezione della fede. Anche noi perciò, in questa settimana, siamo chiamati a passare da una fede intesa come fenomeno di massa ad una fede intesa come responsabilità personale. Pertanto questa particolare circostanza in cui siamo impossibilitati a manifestare collettivamente la fede, può diventare una prima tappa del nostro itinerario Pascalis, un’occasione in cui più che mai, favoriti anche dal clima di ‘isolamento sociale’, possiamo giungere ad una decisione personale. Lì dove questo avviene stiamo cominciando a partecipare della passione di Cristo in noi e quindi del suo evento Pasquale.
Anche il brano del profeta Isaia (Is 50, 4-7) ci mostra l’immagine di un Messia estremamente docile al disegno che Dio gli va gradualmente rivelando, e al quale lui liberamente aderisce. La docilità di cui parla il profeta non è quella che nasce dai momenti tranquilli della fede, ma quella che si manifesta quando la prova si incrudelisce; quando lo strapotere dei potenti prevarica fino a schiacciarci e annientarci e il sentimento dell’abbandono di Dio si fa più insistente in noi. In queste circostanze consiglio sempre di leggere il Salmo 27, che considero la preghiera del mite assalito e circondato dai nemici e nonostante la situazione sembra non offrire speranza alcuna, egli continua e confidare in Dio. Ma anche il Salmo 21/22 che ci propone la liturgia è opportuno meditare. Ciò che ancor più colpisce nel brano di Isaia è la ‘non violenza’ che il profeta traduce con ‘non resistenza’ del Messia, dinanzi alla brutalità che si accanisce contro di lui: “Non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro” (Is 50, 5). Una docilità che non nasce dal timore del nemico, ma dalla estrema fiducia in Dio, che malgrado la violenta aggressività delle persone non abbandona il suo consacrato. Da qui quell’intima certezza che lo induce a quella determinazione che gli consente di perseverare anche nelle circostanze limiti: “Per questo rendo la faccia dura come pietra” (Is 50, 7; cf. Ez 3, 8-9; Lc 9, 51). Non si tratta della forza reattiva che si sprigiona nell’eroe quando viene attaccato dal nemico, ma della grazia che scaturisce dall’intima partecipazione all’azione dello Spirito.
La Passione che il Signore ci chiede di condividere non è tanto quella fisica che difficilmente potrà ripetersi su di noi, con la stessa e inaudita violenza subita da lui, ma quella spirituale che si scatena nel quotidiano della nostra fede, quando la decisione di seguirlo sul serio, comporta la necessità di assumerci il peso delle responsabilità. Specie quando queste ci fanno percepire conseguenze drammatiche che mettono a repentaglio la nostra immagine, il nostro nome o perfino la nostra persona. È in questi momenti che il Signore ci ripete: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove” (Lc 22, 28). Non importa l’ambito o la forma della responsabilità, l’essenziale è rimanere fedeli a lui e al suo Vangelo, consapevoli che proprio questa fedeltà alla sua passione, consente a Dio di dispiegare nella vita il suo piano salvifico.
Può anche accadere di sperimentare anche alcune forme di cedimento, sotto il peso di queste responsabilità, come è avvenuto ai discepoli (cf. Mt 26, 56), o peggio ancora di tradire, come ha fatto Giuda (cf. Mt 26, 14-20. 47-50) e perfino di rinnegare, come Pietro (cf. Mt 26, 33-35.68-75). La fedeltà a Cristo non dipende dal nostro coraggio di sfidare le circostanze più avverse, come afferma quel tale a Gesù: “Signore ti seguirò dovunque tu vada” (Mt 8, 19), ma dalla grazia di Dio e dalla preghiera di Gesù (cf. Mt 22, 31-32) che ci sostiene e ci persuade perfino nei momenti in cui il Cristo stesso, pur di condividere la nostra debolezza e fragilità, può diventare motivo di scandalo: “Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti: ‘Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge” (Mt 26, 31).
Ci sono circostanze tuttavia dove l’incunearsi della prova ci fa avvertire il peso del rinnegamento del nostro io e della nostra volontà, senza il quale non è possibile passare attraverso la porta stretta dell’esigente e necessaria volontà di Dio. Una di queste circostanze è senza dubbio l’esperienza drammatica del Getsemani (cf. Mt 26, 36-56), dove Gesù arriva a sperimentare perfino una sudorazione ematica, segno evidente della profonda angoscia sperimentata nel suo animo. Quest’angoscia raggiunge il suo abisso quando Gesù sperimenta il totale abbandono del Padre sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (cf. Mt 27, 46).
Essa non accenna a diminuire neppure quando il desiderio di giustizia viene costantemente deluso da coloro che gli avrebbero dovuto riconoscere l’autentica innocenza, come il Sinedrio (cf. Mt 26, 57-68), che organizza illegalmente durante la notte un sommario processo, rivelatosi solo un pretesto per notificare la condanna, oppure come quello altrettanto deresponsabilizzante di Pilato (cf. Mt 27, 1-2. 11-26).
Osservando il modo con cui Gesù rimane docile e mite sotto il peso delle torture e delle onte subite dall’inizio dei processi religiosi e civili fino alla crocifissione e la modalità con cui riesce a tradurle in amore (cf. Mt 27, 27-44), viene da chiedersi come e quando abbia maturato una simile forma di amore, che si spinge oltre ogni limite di violenza e brutalità umana? Come non lasciarsi interpellare da una simile testimonianza d’amore a Dio e all’uomo? Ed è paradossale che tra tutti coloro che lo avevano seguito durante il suo insegnamento, solo un centurione e i soldati che erano con lui - solitamente considerati crudi e grossolani e probabilmente coinvolti solo occasionalmente in quella situazione - riconobbero l’autentica identità divina di Gesù: “Davvero costui era Figlio di Dio” (cf. Mt 27, 54). Sorprende questa sconvolgente modalità di Dio di rendere partecipi della sua rivelazione gente ritenuta così marginale alla sua storia salvifica. Si ripete anche qui la stessa situazione capitata al Battista dove alcuni soldati erano tra coloro che si lasciarono interpellare dalla sua predicazione (cf. Lc 3, 14).
E anche qualora dovesse capitare di non riuscire a seguire Gesù lungo la via della passione, chiediamo almeno la grazia di accogliere il suo corpo esamine nel sepolcro del nostro cuore, nella speranza che Dio venga a visitarlo col suo Spirito.
don Luigi Razzano




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