top of page

03/05/2020 - 4a Domenica di Pasqua - Anno A

Aggiornamento: 4 mag 2020


At 2, 14.36-41; Sal 22; Pt 2, 20-25; Gv 10, 1-10


Il Risorto: porta della salvezza


Cari amici ed amiche, confesso che ho trovato un po’ problematico commentare questa pagina evangelica. L’immagine, per cosi dire, anacronistica che essa ci propone, sembrava precludermi la possibilità di individuare punti di convergenza con l’attuale contesto sociale e culturale. La figura del pastore infatti ci appare lontana dalla visione tecnologica della nostra vita moderna, se non addirittura fuori luogo. Finché ad una lettura più approfondita del testo non mi si sono dischiuse alcune chiavi interpretative che vorrei sottoporre alla vostra attenzione, nel tentativo di aiutarvi a leggere in un’ottica di fede anche questa cosiddetta ‘fase 2’, che dovrebbe aiutarci ad uscire dalla crisi pandemica.

Inserita all’interno di questo contesto emergenziale, l’immagine di Gesù come “pastore” e “porta”, sembra aprire nuovi approcci alla questione. Mentre da una parte tutti siamo più o meno presi dall’ansia di trovare risposte pratiche, immediate e risolutive ai problemi che si sono aperti nei vari settori della vita sociale, essa ci invita a spostare l’attenzione sul senso e sulla qualità della vita che intendiamo organizzare dopo la crisi. In questo senso essa acquista un notevole spessore simbolico che suscita, però, non pochi interrogativi: egli è veramente l’unico pastore in grado di offrire una seria proposta di vita, risolutiva, rispetto a quella imposta dall’attuale società? Gli interrogativi diventano poi piuttosto provocanti quando ci si ritrova a dover adattare alla nostra classe dirigenziale l’affermazione di Gesù: “In verità, in verità io vi dico … tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti” (Gv 10, 7-8). È chiaro che il contesto nel quale Gesù fa questa affermazione è quello religioso, ma ciò non toglie la possibilità di estendere il riferimento a quanti si ritrovano a svolgere un ruolo guida a livello civile. Naturalmente la possibilità di prendere in considerazioni simili affermazioni nasce da una insoddisfazione esistenziale che fa guardare con un occhio critico il sistema di vita creato dall’attuale società. Quanti di noi sono effettivamente contenti di vivere secondo questo stile di vita? Il sistema di benessere nel quale ci troviamo ci permette di sviluppare appieno il senso della nostra umanità, di essere autenticamente noi stessi e veramente felici? Quanti di noi non avvertono, sia pure in modo tacito, il desiderio di evadere da questo sistema asfissiante e spersonalizzante della società globalizzata contemporanea? Quanti di noi non hanno la percezione di ritrovarsi all’interno di una forma di ‘dittatura liberale’ che dietro un’apparente libertà di pensiero, di parola, di azione e di operazione, tiene ingabbiato in realtà lo spirito dell’uomo? Prendiamo atto allora che questo tipo di domande ci fanno uscire immediatamente da quell’orizzonte piuttosto edulcorato e bucolico a cui sembrano rimandarci le immagini del gregge, del pastore, dei briganti, mercenari. In verità sappiamo benissimo che prendendo sul serio il linguaggio parabolico di Gesù noi veniamo, delicatamente provocati, a stimolare la nostra intelligenza e invitati a cogliere quel senso che spesso rimane nascosto a coloro che sono abituati a vedere la realtà solo in modo empirico, a fermarsi alla corteccia, al suo realismo esteriore. Si tratta allora di acquisire uno sguardo più penetrante e intelligente e per farlo è opportuno riconsiderare questa pagina evangelica a partire dal suo contesto.

È importante quindi vedere il luogo in cui si trova Gesù quando fa questo discorso. Spostiamo perciò la nostra lettura al capitolo precedente, precisamente là dove viene raccontata la guarigione del cieco nato (cf. Gv 9), avvenuta nel cortile del Tempio, dove, a seguito della quale, scoppia una polemica piuttosto conflittuale tra Gesù e i Giudei, palesemente avversi alla sua persona e predicazione. È all’interno di questo contesto che si inserisce il nostro episodio evangelico. In questa cornice emerge un indizio che si rivela piuttosto significativo, come ha evidenziato in modo acuto qualche biblista. Al v. 1 notiamo infatti che il termine greco che Giovanni pone sulla bocca di Gesù per indicare il confine dell’ovile non è “recinto”, come viene tradotto, ma “cortile” (in greco aulé). Questo particolare ci autorizza a pensare che Gesù quando parla del recinto si riferisce proprio al cortile del tempio, e più estesamente alla religione mosaica che raccoglie quanti desiderano raggiungere la salvezza, ma vengono ostacolati proprio da coloro: farisei, scribi, sacerdoti che sono stati costituiti loro pastori. Lo specifico della missione di Gesù sta nell’entrare in questo cortile e “spingere” fuori, ovvero sottrarre all’azione pastorale dei farisei, scribi e sacerdoti coloro che intendono salvarsi. L’azione di Gesù è chiaramente provocatoria se non addirittura ‘sovversiva’, rispetto ad uno status quo religioso che invece di favorire la salvezza, anestetizza le coscienze delle persone, impedendole non solo di riconoscere Gesù come vera guida, ma perfino ostacolarne la sequela. È dinanzi a questa bieca e ceca resistenza pastorale dei Giudei che Gesù fa un’affermazione inaudita, come a voler rendere chiaramente comprensibile l’identità della sua missione: “Io sono la porta delle pecore … se uno entra attraverso di me, sarà salvato” (Gv 10, 9). E come se ciò non bastasse giunge a qualificare queste guide “ladri e briganti”. Dinanzi alla sua provocazione i Giudei non possono più rimanere insensibili. Gesù fa prendere loro coscienza di essere i falsi pastori di cui parlano i profeti Ezechiele (cf. cap. 34), Geremia (cf. cap. 23, 1-4), Zaccaria (cf. 11, 4-17), che invece di portare i figli d’Israele alla libertà e alla salvezza, li opprimono col giogo del moralismo, del legalismo, e del ritualismo religioso. Invece di favorire un’autentica esperienza di fede creano una struttura religiosa che soffoca la vita spirituale. È contro questo sistema che Gesù si scaglia energicamente e senza mezzi termini.

Proviamo ora a calare nel nostro vissuto quotidiano e sociale questa provocazione di Gesù. Cosa ha in comune questo episodio col nostro status religioso, politico, culturale e sociale? Forse anche noi, come i figli d’Israele, abbiamo bisogno di essere liberati? A chi demandiamo il compito di liberarci e da che cosa avvertiamo l’esigenza di essere liberati? Qual è il recinto dal quale Gesù avverte l’impellente necessità di farci uscire? Non sarà proprio il sistema di benessere dal quale scaturisce quella mentalità di autosufficienza che ci fa bastare a noi stessi e nella quale ci sentiamo perfettamente a nostro agio, ad impedirci la possibilità di riconoscere Cristo come il vero pastore di cui abbiamo più che mai bisogno in questo momento così delicato della nostra storia? Ma proviamo ad andare ancora più a fondo con le nostre domande: che vita è quella ecclesiale che abbiamo creato col nostro perbenismo borghese e liberale? Non abbiamo forse anche noi ridotto l’esperienza della vita evangelica ad un sistema religioso, con una sovrastruttura moralistica e dottrinale che ormai ci sta stretta, soffocando e svilendo la vita spirituale? Questa mentalità religiosa che ci siamo creati non ingabbia forse il nostro spirito e gli impedisce di provare l’ebbrezza della libertà evangelica? Non sarà che anche noi abbiamo ricreato nell’attuale ‘stile di vita cristiano’ quelle stesse dinamiche del sistema religioso ebraico che ci impediscono di cogliere il vero spirito evangelico?

Se queste cose ci “trafiggono il cuore” poniamoci allora la stessa domanda che gli astanti posero a Pietro, dopo aver ascoltato il suo discorso: “Che cosa dobbiamo fare?” (At 2, 37). Chi e cosa ci salva? Si rivela particolarmente illuminante affermazione che fa Pietro nella sua prima lettera, citando il profeta Isaia: “Dalle sue piaghe siamo stati guariti” (1Pt 2, 25). “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia” (v. 24). Ecco allora la porta che siamo invitati ad attraversare per giungere ad una vita libera e liberante. La sua è una porta stretta attraverso la quale si passa insieme e singolarmente. Insieme come Chiesa, singolarmente con le proprie responsabilità personali, alle quali nessuno può sottrarsi. Queste acquistano nelle varie circostanze della nostra vita quella personale forma di croce che ci permette di partecipare alle sofferenze di Cristo, per giungere alla sua salvezza. Pertanto la croce, intesa come rinnegamento della nostra ragione autosufficiente, diventa la conditio sine qua non, ovvero la condizione senza la quale nessuna salvezza è possibile, specie quella a basso costo, proposte dai tanti guru che pullulano nella nostra società, e che noi troppo spesso, come autentiche pecore, seguiamo senza un minimo di coscienza critica, solo perché ci promettono quel benessere immediato, nel quale ci illudiamo d’essere liberi. È spostando la nostra logica di vita sulla visione evangelica che può attuarsi quel processo di cambiamento di mentalità che la Bibbia definisce in termini di metanoia, conversione. Senza questo reale cambiamento di mentalità, la vita che saremo tentati di riappropriarci nel prossimo futuro sarà perfettamente uguale a quella di prima, con tutti i presupposti che ci hanno portato all’attuale crisi mondiale.

Un’autentica e vera esperienza di conversione non si limita solo alla sfera morale, ma coinvolge la totalità della persona e quindi anche l’intelligenza, la creatività, l’affettività ... È acquisendo questa nuova prospettiva di vita che comprenderemo anche lo spirito missionario del discorso di Gesù, secondo il quale, senza perdere di vista quell’unica pecora che è rimasta nel nostro ‘recinto’, occorre seriamente adoperasi per andare a salvare le novantanove perdute per le vie del mondo.

Chi è allora il pastore? E qual è la porta che egli deve saper proporre nell’attuale contesto sociale e culturale? Collocate nel contesto pasquale che stiamo vivendo queste domande acquistano un senso tutto nuovo. Pastore è chiunque si fa promotore della risurrezione e della salvezza di Cristo, senza distinzione di stato di vita; e la porta è la vita evangelica, attraverso la quale possiamo partecipare, già qui, in questa storia, della sua vita gloriosa, secondo le sue parole: “chi entrerà, sarà salvato … e troverà pascolo, per la vita eterna” (cf. Gv 10, 10).

 
 
 

Commenti


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page