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02/08/2020 - 18a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


Is 55, 1-3; Sal 144/145; Rm 8, 35.37-39; Mt 14, 13-21

Date voi stessi loro da mangiare

L’idea liturgica di collocare la Moltiplicazione dei pani subito dopo il Discorso parabolico sul Regno, rivela una straordinaria intuizione teologica che rende comprensibile l’inscindibile rapporto che sussiste tra le parole e i fatti nella metodologia predicativa di Gesù. Le parole infatti senza i gesti rischiano di diventare, più o meno, interessanti racconti letterari; i fatti senza le parole rischiano a loro volta di rimanere straordinari gesti prodigiosi. Essi invece sono complementari: le parole esplicitano il significato dei fatti, mentre i fatti confermano il valore profetico delle parole. Questa unità costituisce un elemento fondamentale della rivelazione del Regno da parte di Gesù e dell’autorevolezza della sua missione.

È in questa prospettiva teologica che va collocata e compresa la Moltiplicazione dei pani, diventando così un vero e proprio segno manifestativo della presenza del Regno nel mondo. Esso infatti rientra tra quei gesti che attestano la messianicità di Gesù, secondo la visione profetica di Isaia (cf. Is 61, 1-2), testimoniata da Cristo nel suo discorso a Nazaret (cf. Lc 4, 16ss; Mt 13, 53-58) e confermato dallo stesso ai discepoli del Battista, allorquando questi dubita della sua azione messianica (cf. Mt 11, 2ss). Anche la collocazione di questo segno nella sezione narrativa, subito dopo quella discorsiva, avalla questa metodologia predicativa di Gesù, preludendo quella degli apostoli. Questi, infatti, vengono da subito introdotti nel vivo delle esigenze pastorali. Ma nonostante la loro attenzione essi riescono a fare ben poco, come ad evidenziare che l’unità con Cristo rimane imprescindibile: senza di lui i discepoli non possono fare nulla (cf. Gv 15, 5). In realtà proprio questo nulla si rivela di fondamentale importanza, poiché è in esso che manifesta la potenza di Cristo (cf. 2Cor 12, 9). Pertanto solo rimanendo in lui possono chiedere qualsiasi cosa al Padre e tutto sarà dato (cf. Gv 15, 7; 16, 23). La Moltiplicazione dei pani costituisce allora un segno che tutto possiamo in colui che ci dà forza (cf. Fil 4, 13).

Ma proviamo ora ad entrare nel vivo della scena e a seguire il suo sviluppo logistico e teologico. Essa ci viene descritta subito dopo la decapitazione del Battista (cf. Mt 14, 1-12), evento che sconvolge non poco l’animo di Gesù, al punto da ritirarsi da solo nel deserto a pregare. Ma presto viene raggiunto dalle folle ed egli non rinuncia a mettersi subito a loro disposizione, come se il loro grido di aiuto, ancora più del deserto, costituisse un vero e proprio luogo in cui riconoscere la presenza di Dio e manifestare l’amore concreto per lui. E’ in questo suo darsi all’altro che si preannuncia la ricca simbologia che impregna tutto il racconto. Gesù si comporta esattamente come l’azione provvidenziale di Dio. Egli entra in azione quando nasce un’esigenza, né prima né dopo e solo quando ci si affida totalmente a lui. E nulla compie come ostentazione di sé, ma solo per rivelare la presenza operante di Dio in atto. Anche il luogo contribuisce ad avvalorare la scena. Essa infatti avviene nel deserto, là dove, letteralmente, l’uomo non può più fare appello alle proprie risorse, se non a quelle di affidarsi totalmente alla provvidenza di Dio. I discepoli si adoperano, per quanto è possibile, a presentare a Cristo la situazione di bisogno che si è venuta improvvisamente a creare, ma il luogo, l’ora e la circostanza rendono praticamente vana la loro attenzione e le loro soluzioni. In casi limiti come questi essi cercano di agire come possono, appellandosi anche alle soluzioni estreme, apparentemente più insignificanti, come di solito avviene quando le circostanze sono più grandi di noi. Ma Gesù, come la provvidenza, interviene proprio in queste situazioni limiti. Tuttavia egli non si sostituisce agli apostoli, anzi chiede a loro stessi di provvedere alla situazione: “Date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14, 16).

L’invito di Gesù potrebbe essere inteso in un duplice modo: il primo, più plausibile dal punto di vista logico e pratico, è quello in cui Gesù mette alla prova i suoi discepoli per verificare l’atteggiamento che essi assumono nei casi in cui i problemi superano le loro possibilità. È come se Gesù avesse chiesto loro: fatemi vedere come avete imparato a fidarvi di Dio in simili circostanze. Provvedete voi stessi a sollecitare la Provvidenza. In altre parole egli li invita ad assumersi le responsabilità non solo sotto il profilo morale e sociale, ma soprattutto spirituale.

Il secondo modo, invece, ci rivela un significato più profondo, manifestando il valore eucaristico contenuto in questo racconto: “Date loro voi stessi da mangiare”, ovvero, consegnatevi totalmente a loro, esattamente come anche io mi sono consegnato. È interessante notare come questo secondo significato si dischiuda anche a seguito dell’atteggiamento assunto da Gesù poco prima della moltiplicazione dei pani. Egli pur ritirandosi nel deserto a pregare, ebbe compassione per la folla che da diverse parti si era radunata intorno a lui, al punto da essere disposto – avrebbe commentato san Vincenzo de’ Paoli – a “perdere Dio nella preghiera per il Dio che si manifesta nei poveri”. Al pari di Cristo anche gli apostoli vengono invitati a donare se stessi. I problemi, le esigenze, i bisogni, in ultima analisi, altro non sono che pretesti per fare di sé un dono per l’altro, esattamente come ha fatto Gesù durante la Cena eucaristica e più esplicitamente attraverso la sua passione e morte. La fame fisica diventa così l’occasione per gli apostoli e noi con loro, non tanto per provvedere a un bisogno contingente, quanto per cogliere in esso la fame esistenziale e spirituale di Dio, come ci rivela la risposta di Gesù alla sua prima tentazione nel deserto: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4). Dare se stessi significa, ancora di più, attuare il comandamento dell’amore di Gesù, secondo il quale “nessun ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (cf. Gv 15, 13). È qui che si rivela ed incarna la logica dell’esistenza eucaristica predicata e praticata da Gesù durante tutta la sua vita e di cui il presente episodio è fortemente impregnato.

L’atteggiamento che gli apostoli assumono in questa circostanza si rivela un’occasione per riflettere sulle situazioni che spesso si vengono a creare anche nei nostri ambienti ecclesiali. Come negli apostoli anche in noi serpeggia la tentazione a deresponsabilizzarci davanti ai problemi. Ma mentre essi delegarono tutto a Gesù, noi invece spesso deleghiamo ai superiori, alle autorità, alle istituzioni, alle leggi, alle analisi sociologiche, alle indagini statistiche, alle stesure di progetti pastorali strategici. Insomma, a tutte quelle realtà che non devono farci sentire il peso della responsabilità e del coinvolgimento personale. Di fronte a questo atteggiamento teorico ve n’è un'altro totalmente opposto. Anch’esso eccessivo come il primo, nel quale spesso ci tuffiamo, trasformandoci in attivisti pratici. Così da un estremo in cui riteniamo che tutto debba dipendere solo da Dio, passiamo ad un altro estremo, in cui riteniamo che tutto deve dipendere solo da noi. Questi estremi, tra i quali ci dimeniamo, perdurano finché non abbiamo il coraggio di fermarci e capire la causa che li determina e l’equilibrio al quale siamo chiamati. Spesso la loro presenza dice l’incapacità di colmare quel vuoto spirituale che si apre come una voragine dentro di noi, quando non vogliamo capire che “siamo fatti per Dio e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in lui” (sant’Agostino). Per questa ragione essi vengono assunti e praticati da noi con esclusiva radicalità, pur di non pensare. E allora giù con espedienti palliativi che continuiamo a propinare a noi e agli altri anche quando essi si rivelano totalmente inefficaci. In realtà i problemi nei quali Dio ci lascia immergere, nient’altro sono che un’occasione per vivere con maggiore radicalità la fiducia nella sua Parola. Non di rado accade che proprio in queste circostanze noi pensiamo di dover compiere chissà quale sacrificio per colmare questo vuoto o questa fame di Dio, mentre occorre fare come ha fatto Gesù, servirsi del nostro poco, offerto a Dio nella più assoluta gratuità e libertà, come il dono suo più gradito: “Abbiamo solo cinque pani e due pesci” (Mt 14, 17). Non di rado basta questo semplice gesto per riconoscere la nostra pochezza e riattivare in noi l’azione assopita del suo Spirito. Dio, infatti, come lascia intendere il profeta Isaia, nutre nei nostri confronti una sola attesa: “O voi tutti assetati, venite all’acqua … comprate e mangiate … senza denaro … Su ascoltatemi … porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò con voi un’alleanza eterna” (cf. Is 55, 1-3). Occorrerebbe fare la stessa esperienza del profeta o del salmista per cogliere l’immagine provvidenziale di Dio che essi propongono attraverso le loro parole. Esse si rivelano tante più profonde quanto più ci lasciamo impregnare dallo Spirito che le ha ispirate. Così il Salmo 144/145 diventa la descrizione di un Dio tutto teso a volgere la sua attenzione e la sua tenerezza a chiunque lo invoca e si rivolge a lui con sincerità. Vi invito a leggere con calma e lasciarvi impregnare la mente di questa tenera e provvidenziale immagine di Dio descritta dal salmista. Solo così essa può sostituirsi a quelle che molto spesso assumiamo dal sentito dire, che poco o nulla hanno a che fare con l’immagine evangelica del Padre.

A conclusione di questo commento vogliamo lasciarci interpellare dalle parole di Isaia e chiederci: se questa è la logica che anima la Provvidenza, perché nella nostra vita continuiamo a cercare altrove ciò che solo la essa può darci? Perché continuare a riempire il nostro vuoto di cianfrusaglie, mentre intuiamo che esso può essere colmato solo da Dio? Perché seguitiamo a spendere noi stessi per cose effimere che ci impediscono di sperimentare la pienezza della vita? Queste domande potrebbero sollecitare il nostro cuore a fare memoria dell’azione provvidenziale di Dio nella nostra storia, perché non accada, come agli apostoli, di trovarci ancora una volta nella stessa situazione di bisogno e sentirci dire da Gesù: “Non capite ancora e non ricordate il fatto dei pani?”

(cf. Mt 16, 9).


 
 
 

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